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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Di maggio la luna si leva già rossa




 


 E’ quando la luna rischiara l’intorno, che mi sorprendo a pensare, che senza di te un altro giorno è passato, nonostante le notti che fanno male e paura, nonostante quei giorni che mi trovo da fare, per non pensare che mai rivedrò i tuoi occhi. Incredibile e vero mi sento più forte, come se il dolore nutrisse il mio corpo, come se gli spasmi che sento qui dentro, mi dessero cibo per le mani e le gambe. E' come se il buon Dio m’avesse dato la forza, il coraggio d’affrontare la fatica e il sudore, di concimare la terra e potare la siepe, di caricare fascine per il fuoco d’inverno, e governare questa casa e gli operai di giorno, che imbiancano i muri e rimontano il tetto, per le piogge d’agosto, per l’inverno più freddo.

Mi sorprendo a pensare che senza di te nulla è cambiato, come la merla che ha rifatto il suo nido, ed ora canta nonostante sia sola, o come Libero che puntuale ogni sera, fischia tra la rete ed io scendo di corsa, e mentre lui parla della sua vacca incinta, mi versa il latte caldo che fuma, ed io che m’inebrio dell’odore che lento, mi riempie i polmoni di stalla e di terra. Nulla è cambiato, nulla ripeto, come questa luna che vedo già tonda ed alzata, padrona del cielo che sovrasta la valle, signora del mio giardino, dell’olmo che sbianca, dei gatti in amore al di là della rete, e fa ombra di tronco piatto sul muro, e fa luce alle foglie del mandorlo nano.

E’ proprio quando la luna rischiara l’intorno, che dalla mia finestra che guarda ad oriente, scorgo la strada che maestra poi volge, oltre il passaggio breve di colli, oltre quei rovi di spine a cespuglio, e poi le querce e i faggi del bosco, la fonte e i tetti di tegole rosse. Rischiara le case cresciute a funghi, senza arte né parte, senza nessuna decenza, qui e là per riempire un vuoto, che sono frutto dell’ignoranza e bisogno, e ora sono il simbolo dell’arroganza che odio. Ma ho piantato una rete di gelsomini e di rose, ad oscurare quei tetti e i mattoni malcotti, le rose sono gialle come tu mi hai chiesto, e d’aprile s’affollano di spine e di foglie, e di maggio esplodono a macchia sul muro, senza mai smettere nemmeno d’inverno, quando tutto l’intorno si vela di grigio.

Di maggio la luna si leva già rossa, e da dietro il profilo del monte di ulivi, s’alza lenta sopra la rete di rose, e indugia e sfiora il mio tetto di coppi, come allora, come adesso, come ogni volta che ti penso vicino, quando su in casa m’illudo che dormi, quando al camino ti penso che scrivi. La guardo la luna respirando l’odore, che dalla terra si alza ed alla terra ritorna, ed è odore d’amore, di femmina sola, di vita che torna, di sangue che vuole, lo stesso che ancora mi scorre bollente, senza che mai abbia perso speranze, anche se so che sei accanto a tua moglie, ed il motivo per cui sei tornato da lei, che è lo stesso della vacca di Libero incinta.

Scorre la notte umida ed afosa, scorrono i giorni senza un alito di vento, guardo il gelso antico appena piantato, vicino al recinto in una terra non sua, dicono che si seccherà, ma ha foglie folte e più verdi, ha ombra fresca da offrire, ad ogni viandante che sale quassù. Tutti i giorni lo annaffio, ne accarezzo le gobbe, di croste raggrinzite di anni e di pioggia, di vento e di sole passati in filare al limitare di campi di grano e maggese; tutti i giorni lo annaffio perché l’estate riarsa non ne bruci le gemme a forza rinate dalle deboli radici strappate.

Scorre buia la notte, non ha forma e colore, né voce, ma la guardo e l’ascolto sapendo ugualmente che esiste là fuori, oltre il vetro senza persiana, oltre il confine di siepe d’alloro, dove ho costruito questa casa di mattoni e sudore, di intonaco bianco e grondaie di rame. Siedo sugli scalini di legno di olmo sapendo che è solo questione di ore, una luce leggera comincerà a spandere colore alla terra, ai profili grigiastri dei seni dei colli, d’arancio tingerà l’orizzonte e la palla del sole salirà veloce ad accecarmi gli occhi.

Io ti amo penso, ti amo da sempre e per questo ti annullo in altri uomini, con mio immenso piacere. Mi ubriaco di baci diversi e di vino. Temo di diventare folle, se sapessi cos’è la follia, se sapessi cosa fa una donna pazza. Forse fa le stesse cose che faccio io, ma penso di non esserlo mai stata. Ma tu lo vuoi, vero? Tu imperterrito, uomo testardo. Tu, dolcissimo sorriso di traverso che non ricordo. “Non ti cercherò più!” Mi dico, ti dico, mi prometto e ti giuro. Specialmente di notte, specialmente a quest’ora. Ma poi ti cerco in altri baci, in altre carezze. Mangio poco, pochissimo. In compenso bevo vino, come non avevo mai fatto.

Scorre la notte, scorre buia e cupa la notte, penso a te, a tua moglie, al tuo prossimo figlio, al danno che ti farei, al dolore vero che hai dentro, che ti allontana da me, che deve essere pure lasciato libero di vivere perché tu compia quello che devi. Penso ai giorni che verranno e mai ci vedranno insieme, penso al silenzio e sono pure felice. A volte ragiono come vedi, ma ormai sono solo barlumi, lampi tenui di luce senza coda, come il giorno a febbraio da queste parti!

Penso ai giorni in cui guardavo da lontano le cime dei tuoi monti imbiancate e pensavo: "Avrà freddo" A quando a volte sentivo il vento ululare e nuvole grigie addosso e pensavo dove sarà? Quale strada percorrerà, in quali e quanti guai si sarà cacciato? E poi al sole. Il sole che indorava la terra, già splendida dei suoi colori, in quel periodo. I colori dell’autunno. I miei colori!
Quell’anno le piante avevano mantenuto le foglie ed era un’esplosione di toni gialli e rossastri. Ti struggevano l’anima. Mi struggono l’anima.

Là fuori c’è tutto quello che ho costruito. E’ buio e non vedo, ma ho fatto tutto io. Ti volevo solo vicino, mi bastava che tu fossi qui. Anche se poi ogni tanto andavi via, lo sapevo, mi rabbuiavo, ma capivo. Io sapevo che lei non sapeva, nonostante tu mi rassicurassi, sapevo che non avresti mai avuto il coraggio, di dirle addio, di lasciarla, ma mi bastava quello che mi davi, quell’amore anche se clandestino, anche se intermittente.

I roseti rampicanti invadono la rete. Colori forti rompono gli spazi. Presto ci sarà un profumo intenso di rose e di gelsomino e sarà il profumo della mia vita, della mia anima, sempre solitaria e sola eppure tenera. Sento il tuo silenzio da lontano e la mia voce da dentro, sicura, serena.
E t’amo, t’amo sempre e non ti cercherò più! Non mi vedrai più sola! Non mi vedrai sola. Mai per te. Mai più.
Lo ripeto monotona e lenta per calmare le parole che salgono da dentro con cui vorrei spiegarmi e spiegarti una vita che all’improvviso ha avuto bisogno di te, che ti ha incontrato per caso dicevi, per destino ripetevo. Ma non sono pentita sai, vorrei rifare quella strada e rivederti con l’auto in panne. Ti vedevo anonimo, ma ero già consapevole che non avrei fatto altri due passi senza di te. Ho chiamato Ernesto, il figlio di una mia cugina, poverino ha cercato di far ripartire la macchina senza riuscirci. Era tardi ormai, il sole era andato, ma ridevi, ridevo…

Un pasto caldo non si rifiuta a nessuno, mi ingannavo. Sono sposato mi hai detto, non me ne frega nulla ho pensato, quando stringendo gli occhi ho sentito quel bacio, caldo, bollente, quelle mani. Dio quelle mani, fuori e dentro me. Quella tavola appena apparecchiata, pasta con i carciofi e vino rosso. Già è patetico ricordare! Mi ripeto monotona e lenta fino a scolorire il dolore fitto dei ricordi che mi attraversa le spalle, che mi stringe il petto e soffoca il respiro. Non mi vedrai più sola e questa casa bellissima è la mia.

Mi avevi detto che tra voi non c’era più nulla, che le volte che sparivi per giorni, era un modo per rigenerare la fonte, del tuo genio d’artista, della tua anima fertile. Ma io sapevo e stavo zitta. Lo sentivo e ne avevo certezza, e quando tornavi ne percepivo l’odore, dai tuoi occhi più spenti, dalle voglie più mute, ma tornavi da me ed io ero contenta.
Non so più quanto tempo sia passato, quante volte sei andato e tornato, ma mi riempivi l’attesa ed io stavo bene, fino a quell’ultimo pomeriggio di una lunga estate, fra i monti, fra erbe che stavano rinsecchendo e che non saprei ritrovare. Ti sto riascoltando sai, seduto sugli scalini di olmo, con quel tuo intenso raccontare e raccontarti, con quel tuo sorriso soffuso, gli occhi distanti nel futuro che dicevi era l’oggi, le nostre mani intrecciate davanti al tramonto, le bocche sorprese a riempirsi dell’anima dell’altro.

Scorre, scorre la notte e t’ amo e t’amo infinitamente, le gambe sfinite da un altro uomo. Ieri, è stato ieri. Anzi stanotte. Non credevo fosse così facile abbandonarsi al piacere, gridare, gridare e sentire che in fondo, un uomo che entra è un uomo soltanto, un uomo che poi esce chiude solo una porta. Mordeva, mordeva anche lui, mordeva il mio sesso, le labbra, il mio seno, ma non eri tu. Ero bella sai, bella almeno lui diceva, dentro questa casa, in cucina, in sala da pranzo. Dentro il nostro letto, dentro questa casa mia, ero bella per lui, per me, per te, perché tu hai voluto perdermi ed io ti sto accontentando. Giorno dopo giorno…

Ti accontenterò ogni sera che si rabbuia, quando cala il tramonto e fa male, dentro questa casa mia, dentro la mia anima, che s’adombra e si ribella. E ci saranno altri uomini, ho giurato mai lo stesso, tanti, tanti per non farne uno! Per non fare la tua faccia che rimarrà unica, la sola. Ci saranno altre voci, la tua non tornerà più, eppure ce l’ho dentro, lenta, monotona, a cantilena. Le tue risate, i tuoi racconti che ogni tanto rileggo, quali mi hai chiesto, a caso ti ho risposto, ma sai che non è vero. Mangio, divoro e rileggo i nostri, quelli che hai scritto qui accanto a me, per me, vedendo il gelso, potando le rose. Mi manca sai quel tuo modo di guardarmi, di spogliarmi vestita, quel tuo viso stretto, dissonante e ruvido.

Ti amo infinitamente, t’amo.
Strappo erbacce dal mio campo e mi pungo e tu sei la ferita, tu sei il sangue quello denso del cuore, la terra in cui affondo le mie unghie. Tu sei lì, sei la mia terra, la mia anima, le gemme timide che bucano la corteccia. Tu sei il respiro profondo al mattino, quando esco a respirare l’alba e a toccare il sole. Tu sei il gelso che si difende, tu sei il pero che non si decide, quella rosa gialla di fuori stagione, quelle tegole accatastate, la grande magnolia piantata insieme. Tu sei lì immancabilmente, tu sei me.

La notte avanza, il buio è schiarito, tante stelle e ancora terra nera, desidero dormire. Sfinita e femmina, desidero dormire. Sola nella notte come sempre. Io e il buio, il freddo e le stelle e terra nera. Ed è proprio lì dentro quel sogno, in cui vedo la luna e quasi la sento squarciare un cielo di nuvole nere, come un faro improvviso in un mare nebbioso, e chiara riscopre di un verde irreale, la valle che sotto si dipana nel ventre, della terra che nutre e feconda i miei sogni. Per questo t’aspetto, per questo ti penso, ed ho la certezza che domani la luna, schiarirà un’altra notte, una notte di seta, di un sogno che vero, di labbra che rosse, mi faranno più bella, ti faranno più amante.
 

   






 



Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  Nina Mašic

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