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RACCONTI

1

Adamo Bencivenga
L'Amante Ufficiale
TERZA PARTE





 

 

Quaranta


Mia madre è convinta che io sia nata una sera d’agosto, quando fuori le stelle cadevano fitte. Mia madre è convinta, ma ogni volta mi racconta una storia diversa che mischia e confonde con le altre delle otto sorelle. L’unica cosa certa è che sono nata a Can Tho dove tutta la vita si scioglie lungo le rive del fiume, dove si saltano in padella scalogno e filetti di pesce.
Mio fratello è il primogenito e ci ha fatto da padre, perché quello vero è morto di un male che ancora ignoro e che ogni volta al primo dolore credo di avere.
A Saigon c’è una via che si chiama la strada del sole, ecco io sono nata poco distante proprio dove cade il tramonto, perché la mia pelle è gialla e rossastra, perché il mio cuore è cenere e fiamme per i tanti uomini che m’hanno almeno sfiorata.

Ma quella notte ne ho presi tanti, lo ricordo ogni volta per farmi scandalo al cuore. Perché la guerra non è solo bombe, non sono solo i bagliori che rischiarano a giorno le case sul fiume.
Non è solo morte, ma l’odore di stupro nell´anima dentro, è una donna che cammina da sola, un fratello ubriaco che si era scordato di farmi da scorta. La guerra è una ballerina alle due di mattina che esce ammantata di rosso di seta, che fa tre passi insicuri lungo un marciapiede tra sterco di cani e lattine di birra.

Ed io ne ho presi quaranta in una sola notte, tutti diversi senza mischiarne gli odori, ne ho presi quaranta dalle due all’alba, quaranta davvero dai piedi ai capelli.
Nel posto più intenso dove sentivo possesso, dove più stretta non potevo far finta che un cuore che batte ne giustifichi il verso. Ne ho presi quaranta, quaranta in tutto. Quanto una raffica fino all’ultimo fuoco, d’un cecchino perfetto che non ha sbagliato mai mira, tutti al bersaglio e mi leccavano il collo, tutti sorpresi che i miei fragili fianchi, tenessero testa ad ogni tipo di voglia, avessero un posto per alloggiarci il piacere.

Non so perché ti scrivo scriva questo, cosa pretendo e perché tu lo debba sapere. Forse soltanto perché era successo la notte precedente a quando mi hai conosciuta. E tu non te ne sei accorto, anzi nessuno se ne è accorto che nei miei occhi c’era ancora il terrore. Forse perché la guerra ci ha insegnato a mentire, ci ha insegnato a distinguere il valore che una donna stuprata non è una bomba nel cuore.

Tu mi hai vista ed io ero sorridente nonostante quella notte ne avessi presi quaranta, tutti diversi, perché natura scivolasse dentro, nell’infinita certezza che ero parte del mondo, come un cielo che è ventre di voli d’uccelli di specie diverse, come un mare che nutre grandezze di pesci affamati, come una gatta in calore che porta nel grembo incroci di semi di razze straniere.
Come me che ero soltanto la figlia, d’una guerra che cominciavo a subire, a rendermi conto che non era solo miseria e bombe, sangue e corpi sfigurati, ma anche aliti densi di vino e di birra.

Ne ho presi quaranta senza fiatare perché m’ero promessa di resistere, tanto, seppure avessi chiesto aiuto, chi mai si sarebbe avvicinato. Sentivo nel mio ventre il destino e quello ho avuto, uno ad uno come cani e sciacalli che aspettano muti il proprio turno per finirsi la preda.
Erano tanti e a tutti ho dato un nome, anche se poi, come mia madre, confondo le mani e i capelli, misure di sessi bianchi europei, e il colore degli occhi si mischiava in una luce riflessa, la stessa che quella notte proveniva dal mare, mista all’odore di pioggia e di fango.
Ero stanca, ma cercavo di resistere al dolore, perché non volevo sprecare un solo momento, di quella rabbia che intensa mi spaccava da dentro, di quel ricordo che vivo rimane indelebile ogni volta che faccio l’amore.

Il giorno dopo sono andata comunque alla Maison, mi sentivo senza fili, sballottata, cercavo protezione, quando sei comparso tu.
Forse volevo solo che tu conoscessi il mio stato d’animo e perciò ho accettato la tua proposta senza fiatare.





Ora era tutto diverso


“Ce l’ho fatta!”
Ero immobile tra voi due che dormivate, giuro tranquilli, niente di più facile, bastava soltanto dirlo e voi non avete neanche risposto. “Perché non c’è ragione nel sentimento che provo, non c’è motivo di mettersi contro la corrente che fluida trasporta lontano senza sapere dove, ma col piacere di obbedirle.”
Pensavo soddisfatta tra i vostri corpi.

Nel bagno, mentre ci struccavamo dopo il ballo all’ambasciata, tua moglie m’aveva baciata a lungo.
Avida, prima di venire a dormire, m’aveva succhiato la lingua e la gola, m’aveva stretto il seno fino a darmi dolore. M’aveva detto puttana, come te la prima volta, perché si era accorta del tenente francese che insolente avevo lasciato strusciare, sul vestito, sul sesso, che tu avevi lasciato penosamente voglioso.
Mi diceva puttana e mi baciava le gambe, in ginocchio sul pavimento del bagno. Ero io la padrona! Leccava il mio sesso per sentirne il sapore e constatare che a nessun uomo quella sera avevo aperto l’ingresso.
Mi diceva puttana e mi faceva giurare che ero solo una serva di sua proprietà e nessuno mai avrebbe varcato quella soglia, se lei non avesse voluto.

Tremavo, avevo paura che tu ci sentissi. Era pazza, pazza di gelosia fino a che ha voluto che io facessi altrettanto dissetandomi del suo miele. Appoggiata al lavandino e col ventre proteso mi ha coccolato la testa e poi spinto verso il suo piacere infecondo, verso la brama più intensa che copiosa scendeva e mi bagnava le labbra. Poi un rumore e tutto è finito di colpo.

Sono venuta in veranda e tu mi hai chiesto scusa. Ma scusa di cosa? Che mi ero fatta tua moglie? O che poco prima avevo raccolto la sua voglia con la stessa bocca che avresti voluto baciare?
Ti ho guardato spalancando gli occhi. Volevo che tu capissi. Ma davvero non riuscivi a leggermi dentro? Stavo impazzendo pensando a te, a lei, alle mie gambe ancora bagnate dalle voglie di una femmina intatta.
Subito dopo ci ha raggiunti in terrazzo ed è stato naturale dirvi che avrei dormito nel vostro letto. Proprio lì nel mezzo, come un bimbo nella pancia di sua madre. Non c’era altro posto che potessi occupare.

Dio! Non vi siete neanche guardati. Che so io… consultati con uno sguardo. Nemmeno un cenno d’assenso. Avete immediatamente detto di sì, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Però per me lo era, sai.






Tra voi due


Ero di tutti e due anche se l’uno pensava che non fossi dell’altra e l’altra s’illudeva di saziarmi nel ventre per zittire l’istinto d’un maschio che chiama. Ero lì che sfioravo il calore di pelle, i dubbi dei cuori immobili e muti che non chiedevano altro.
Per tua moglie era un atto dovuto, lavare la colpa che m’aveva macchiata, come se il francese m’avesse scopata davvero, come se i miei peli che sentiva tra i denti non fossero bastati a chiedere scusa. Per te soltanto un atto d’amore come se le mie mani potessero afferrare la tua parte incompiuta, darti la cura che chiedevi ogni volta, ogni donna tranne tua moglie.

Tu stavi ascoltando i miei pensieri e nel buio ho sentito due labbra soffici baciarmi i capelli. Ho sentito una mano che si infilava nella stoffa, tu non sapevi del tenente francese, ma eri geloso lo stesso, geloso di non essere alla pari di tutti gli uomini che avevo avuto finora, di quei quaranta che ignoravi ma affollavano ancora i miei incubi. Mi sei venuto vicino, ma io non avevo più bisogno di conferme.
Ti amavo e la notte di colpo m’è sembrata più chiara. Mi domandavo per quale mistero v’eravate affidati ad una puttana, anche se di buona famiglia, anche se una delle 150.

Capivo perché il primo giorno eri andato via. Tu cercavi sicurezze e sei voluto tornare con tua moglie che involontariamente mi scegliesse.
Ero sicura che non stavi fingendo, che tu volevi amarmi autonomamente da lei e dal suo giudizio. Mi domandavo se m’avresti scelto comunque. Anche se lei non fosse stata complice dei tuoi fallimenti, dei tuoi tentativi d’essere maschio tra le sue gambe?
Ma quella sera era cambiato qualcosa, la gelosia di tua moglie al ballo, il continuo cercami per non essere sola. Mi voleva tutta per sé, medicina e cura delle sue astinenze, medico e terapia delle tue impotenze.
Mi scaldava ogni volta portandomi ad un flebile orgasmo, come se mi tenesse viva ed avesse il timore che in qualche modo potessi sfuggirle.
Perdonami! Non potevo fare più a meno dell’una e dell’altro. Godevo nel governare la danza delle vostre insoddisfazioni, scardinare da dentro due anime inquiete, voi m’avevate cercata ed ora sentivo d’essere bella come non lo ero mai stata, come una donna contesa.






A passi felpati


A passi felpati per non sentirmi un’intrusa, avrei voluto entrare nei vostri sogni e vedermi come quando il riflesso di uno specchio mi scontorna le dita e lascia in penombra la scia che accarezza leggera i profili del seno. Avrei voluto bussare in uno dei due senza preferenza, perché uguali a quell’ora di notte quando accanto dormiva un’anima in piena.
Mi vedevo bella, bello il mio seno perfettamente ricurvo alla vostre mani incavate. Bella quanto la fantasia fertile s’illudeva di partorirmi, senza nei e difetti, penetrata o solo espugnata da un fascio di luna, mentre spicciavo i capelli ai bordi del letto ed accavallavo le gambe di fame d’amore.

Mi vedevo donna perché nata dalle menti digiune, che il desiderio confonde e la ragione non è di conforto. Mi bagnavo al solo pensiero che sgorgasse copioso all’idea che la mia anima di colpo fosse seno e forme, succube dei rivoli del desiderio che da solo colava senza nessuna apparente ragione.
Ma avevo paura che essendo notte non fosse stato che un sogno soltanto, che l’alba avrebbe appiattito il desiderio che inseguivo da giorni, d’essere indispensabile alle vostre fragili vite supplendo carenze affamate d’amore.

Non so perché mi abbiate concesso di stare lì in mezzo, di dirvi in silenzio che vi amavo. Non so perché vi ho concesso di immaginarmi più bella e di toccare il colore delle mie mutande leggere. Perché vi ho promesso di avere le ali e farvi volare sopra queste nuvole d’amore che non nascondevano niente.
Nell’incanto d’essere parte di voi, d’essere il vuoto che vi teneva distanti pensavo a te che accanto dormivi. Eri lo stesso che confondevo nel sogno. Pensavo a lei che m’aveva rivoltata e legata perché io fossi solo corpo e fessura, uno squarcio di pelle dove cercava fatica e riposo.

M’avrebbe presa di nuovo, ne ero sicura, dove la gelosia ripone vendetta e consuma rivincite, tane ed anfratti per donne che depongono uova, dove la violenza non è offesa ma amore, piacere, un manico di spazzola che fa le veci di un uomo, cogliendomi sorpresa e impreparata al risveglio.
In fin dei conti stavo chiedendo solo di stringermi, più forte perché quel buio non fosse evanescente, che da un momento all’altro non rimanesse che vuoto. Ma avevo paura di essere io stessa il vuoto. Ed allora m’aggrappavo alla mia voce che vera rispondeva, che il domani era quello che stavo vivendo, ma avevo paura che il giorno che stava nascendo mi sorprendesse in un letto disfatto ancora da sola.

Tu dormivi, avevi il respiro pesante, quando la mano di lei mi ha protetto prima il viso e la bocca e poi come una lama è scesa nell’incavo dei nidi dove gorgogliava bollente il piacere.
Sentivo che era un atto d’amore, forse davvero il primo, che nessun uomo mi aveva mai dato.

Ho preso sonno con difficoltà in quell’alba più rumorosa del solito. I francesi non erano vinti, i comunisti Viet Minh non avevano la forza per gridare vittoria. Venivano voci di massacri nella zona di Dien Bien Phu. Qualcuno diceva che nella lontana Svizzera il mondo stava trattando per noi. Mi risultava difficile pensare che qualcuno si interessasse a questa miseria. A scuola avevo imparato che se dividi zero rimane sempre zero, ed allora cosa si stavano spartendo?
Dio, che orrore la guerra.
Ma erano soltanto pensieri d’innamorata che alle cinque del mattino era ancora sveglia.







Le amanti ufficiali


Mia madre era contenta e mia sorella aveva messo il vestito della festa che si era cucita da sola copiando il modello da una rivista francese. Mi hanno domandato di te, se riuscivo ad esserti umile compagna e trovare la pace nel cuore.
Per loro tua moglie era solo un dettaglio come anch’io credevo quel giorno quando comprasti dieci biglietti. Come facevo a spiegare che da allora era tutto cambiato? Che negli ultimi tempi soltanto una donna m’aveva portato vicino al piacere, che tra te e lei non c’era conflitto, ma un vuoto su cui m’ero adagiata?
Loro erano convinte che ogni notte prendessi il suo posto, e tua moglie tacitamente mi lasciasse la parte più fredda del letto, che io scaldavo.
Ed in effetti quel giorno non mi fecero domande perché da queste parti è cosa normale che una moglie si metta da parte, quando i desideri del maschio rimangono intatti dopo l’amore.

Ci sono donne che non aspettano altro d’essere mogli soltanto di notte e curano le anime e soddisfano i cuori, a viso aperto, senza per questo doversi nascondere.
Sono le amanti ufficiali, signore vestite di viola con le unghie dei piedi smaltate di rosso. Sono ex ballerine a tariffa, mogli in affitto che suppliscono ai doveri avendo in cambio un alloggio, vitto e consumi che chiederebbe una donna normale. Ex puttane cadute in disgrazia che si accontentano di un tetto temporaneo.

Non sono concubine, mai si accavallerebbero alle mogli, rimangono nel ruolo per cui sono state affittate, signore di cortesia che non svolgono faccende di casa.
Ufficialmente non offrono sesso, sono regolate dalla legge come dame di compagnia, ma è solo una patina di ipocrisia perché lo Stato e la Comunità tolleri questa usanza diffusa soprattutto nelle grandi città.

Non è difficile trovarle, le vedi ovunque dove c’è folla. Basta andare al mercato del pesce una mattina a buon’ora e vederle a gruppi che parlano fitte in attesa della prossima offerta. Sono lì che aspettano uomini e donne che vengono in coppia, che insieme trattano il tempo, il compenso di vitto ed alloggio, il motivo per cui sono chiamate.
Quasi sempre lei, la moglie, ha la pancia ripiena o troppi figli intorno che spezzano il fiato.
La donna vestita di viola discreta li ascolta. Ha una propria dignità e non tratta mai con uomini soli. Sarà l’amante ufficiale per un giorno, un mese, un anno di scorta per chi avrà la fortuna di sfamarle la pancia e d’ospitarla su un letto che avanza.

Le poche volte in cui mi alzavo presto e andavo al mercato rimanevo a fissarle chiedendomi se dalla vita non potessi avere altro e se quella sarebbe stata l’unica meta concessa ad una ballerina a tariffa.
Me lo sono chiesta anche in quei giorni, in effetti cos’ero se non un’amante ufficiale, la vostra, anche se ancora troppo giovane. Mi chiedevo se stessi facendo soltanto le prove!

Mi disperavo ma poi convinta tornavo a sorridere pensando che tra noi non c’era soltanto un gelido patto, un contratto. Voi eravate due persone che cercavano amore e che l’ipocrisia in cui eravate vissuti non vi permetteva d’essere chiari e trasparenti.
Sarebbe stato tutto più facile avere un’amante ufficiale!
C’eri tu che mi convincevi che sbagliavo a pensare. C’era lei che forse m’amava davvero!
Tu mi guardavi nell’anima aperta e tentavi di dirmi che stavo sbagliando a pensare, che l’amore che sentivi non era condivisibile con altre persone, che era un sogno, una fuga da Saigon lontano da tua moglie. Ma come potevo accettare?
C’era lei che in quel momento mi stava aspettando sotto casa di mia madre. Ferma e impaziente dentro un taxi.

Aveva paura che io potessi rivedere quel tenente francese o qualche altro tenente che lei non conosceva, qualche altro francese che mi consumava la voglia sopra il pavimento di legno di qualche catapecchia lungo il corso del fiume.
La vedevo dalla finestra, ogni tanto usciva dal taxi e guardava in alto. Era bella tua moglie. La mia Amante! Quel giorno portava un vestito a fiori ed un ombrellino bianco di stoffa. Passeggiava nervosa.
Mi faceva immensamente piacere che qualcuno mi stesse aspettando. Era un cuore che batteva, fremeva e perdeva dei colpi. Ne ero orgogliosa, qualunque fosse il suo sesso e anche se dalle parti del cuore c’era un rigonfio di seno.
Mi faceva piacere, ma non mi bastava.

Ogni volta che scendevo da casa di mia madre mi scrutava dalle caviglie alla fronte. Analizzava ogni parte del mio vestito per non trovarci macchie e pieghe sgualcite, residui indelebili di segni d’amore.
La vedevo che non si dava pace. Era l’unico posto al mondo dove non poteva seguirmi. Mai avrei tollerato il minimo dubbio negli occhi di mia madre, nel sorriso malizioso di mia sorella.
“Quando mi guardi, i tuoi sono occhi di innamorata! Chiunque se ne accorgerebbe… tranne tuo marito naturalmente!”
Lei lo aveva capito.

Scendevo e rientravo nel vostro mondo, nel suo, in cui lei sguazzava, ma a me andava stretto, perché come le amanti ufficiali io mettevo armonia, e come ballerina a tariffa mi mancavano i fiori, due mazzi con i biglietti bene in vista, perché fosse chiaro che non c’era inganno in quello che facevo e l’amore che offrivo era la somma perfetta di due parti uguali.






Il ventre del mare

Quella sera in veranda sono rimasta atterrita, parole grosse, insulti e rimproveri per l’unico fine di procurare dolore ed offesa, di farvi del male senza ragione. Eravate veri ed io ho spento ogni mio dubbio.
Io guardavo il mare, le navi che partivano mute, lo sforzo e il dolore, i bordelli e il quartiere cinese che intatto continuava la vita di sempre, dove nessun francese s’era mai sognato di entrare.

Le navi partivano cariche d’amore e speranza di trovare la pace in qualche altra parte del mondo, di trovarci un lavoro perché avevano braccia ed avevano mani, sudore che avrebbero offerto per uno stomaco pieno.
Guardavo quel mare, lo stesso che faceva da profilo a chi s’accusava di santa ragione, a te che le rimproveravi d’averti lasciato da solo nelle notti da lei passate fuori di casa, in cerca di quel compenso che pretende una donna, che non è affetto, non è amore, ma impellente bisogno di sentirsi considerata.
Sono sicura che lei non avrebbe avuto nulla da dire se io non fossi stata presente. Ti avrebbe lasciato parlare, sfogare, per poi tornare dentro la coltre della sua freddezza.
Mi rendevo davvero conto che quella non era una commedia, e lei non credeva che io ne fossi al corrente. Ti lanciava sottintesi per non essere chiara, per non essere scura davanti ai miei occhi.

Oddio che pena! E tutto perché la mattina ti eri rifiutato di andare al ricevimento della moglie del console. Secondo lei ti avrebbe portato vantaggi nel lavoro e nella sistemazione poco decorosa che io vi avevo trovato.
Era evidente che non era quello il motivo, che non c’era pace nei vostri occhi. Al minimo accenno eravate nemici, alla prima parola storta vi vedevo sprofondare negli abissi dell’odio, della rivalsa, della rivincita.

Ti sei alzato lasciandola urlare, si è alzata continuando a gridare, mentre io ad occhi chiusi guardavo il mare senza più i vostri profili.
Era un mare profondo dove m’abbandonavo leggera, mai sarei potuta andare a fondo perché ero ancora convinta d’averlo trovato nel ventre delle vostre anime vuote.
“Sei la sua amante vero?”


Ma quella era una sera diversa, una nuvola rara velava la luna. Mi sei venuto vicino e mi hai accarezzato le spalle, ridevi per cercar comprensione.
“Sei la sua amante vero?” Ti eri fatto serio.
“Dimmi che già ti ha fatto godere.” Non rispondevo, ma come se l’avessi fatto senza raggiri.
Eri seduto mi stringevi le cosce.
“L’ho capito dai suoi occhi troppo aggressivi. Lo è sempre stata quando ha un amante. L’ho capito dal tuo sguardo equidistante che non ha guadagnato la sponda per guardare dall’altra parte del fiume.” Mi stringevi più forte.
“Se l’hai fatta godere, te ne sarà grata per sempre! La conosco, ha l’anima a forma di sesso quando prova piacere. Nella sua carne s’annida il conflitto di non poter essere di un unico uomo.”

Ero contenta, era la prima volta che mi parlavi di lei. La tua mano continuava a salire fino a sfiorarmi il sesso. Poi discretamente sei entrato. Ero felice che sentissi le sponde bagnate. Non capivo le tue intenzioni, non sapevo dove il tuo dito mi avrebbe condotto.
Hai voluto che ne assaggiassi il sapore per guardarmi negli occhi e provare cosa prova una donna quando assaggia sé stessa. Eri intraprendete ed ero felice. Non l’avevi mai fatto così vicino al rischio che ci potesse vedere e non capivo se fosse una rivalsa perché in tua assenza avevamo giocato da sole o una sconfitta di maschio che vede negli occhi una donna che gode.

M’hai trascinata fino alla ringhiera di legno, Saigon m’avvolgeva e tu eri attratto da quel dito che continuavo a leccare. Non c’è voluto molto. Mi sporgevi nella notte e m’alzavi il vestito. Obbediente colavo e mi facevo toccare, inghiottivo la mia faccia nell’oscurità della notte.

Cos’ero per te in quel momento?
Soltanto un corpo o una piccola puttanella che si era fatta tua moglie. Oppure l’amante sognata nelle mille escursioni al fronte per scrivere un pezzo.
Ero solo una fica, e tu sei entrato come Cesare nell’arco di trionfo, come un generale che saluta le truppe.
M’hai scopata davvero, senza remore e dubbi, per dimostrarti d’essere vivo, per mostrarmi che quello era sesso, maledetto e violento, d’un uomo che era anche maschio.
Chissà cosa avrebbe detto tua moglie? Ma il destino l’ha lasciata in bagno ancora ad urlare, a pensare che non ci sarebbe stato rimedio alla tua impotenza.

Guardavo le navi partire, ma ora non c’era tristezza, perché per me era amore, assolutamente la prova che m’amavi davvero.
Mi fottevi come un animale in calore che non chiede altro che quello che sente e giura e stragiura che nulla potrà mai essere meglio.
“Sei una puttana no?” Affondavi i tuoi colpi, rischiando di cadere nel vuoto.
“Sei una puttana no?” Sì lo ero, ma non capivo cosa rispondere, se dovessi giudicarti dal sesso che mi stava riempiendo.
“Ho ancora nove biglietti vero?” Spingevi e m’alzavi con la sola forza del sesso.

“Allora posso scoparti ancora nove volte a mio piacimento!” Eri crudo, ma sentivo che mi volevi bene.
“Lei lo paga il biglietto?” Ecco la gelosia che usciva fuori.
“Dimmi se mi senti. Se pochi o nessuno sono arrivati più oltre.” Sbattevi gli occhi e mi stringevi i fianchi. Sbattevo gli occhi e ti strappavo i capelli.
Ho gridato: “Nessuno.” Perché tanti erano andati oltre, tanti fino a ferirmi la carne, ma nessuno s’era spinto fino a spellarmi anche il cuore.
Poi un attimo e ti ho sentito bollente, un niente e m’hai gridato nell’orecchio che saresti stato qui dentro per sempre.







 CONTINUA






 
 
 



Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo  ChaoPavit

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