Quaranta
Mia madre è convinta che io sia
nata una sera d’agosto, quando fuori le stelle
cadevano fitte. Mia madre è convinta, ma ogni volta
mi racconta una storia diversa che mischia e
confonde con le altre delle otto sorelle. L’unica
cosa certa è che sono nata a Can Tho dove tutta la
vita si scioglie lungo le rive del fiume, dove si
saltano in padella scalogno e filetti di pesce.
Mio fratello è il primogenito e ci ha fatto da
padre, perché quello vero è morto di un male che
ancora ignoro e che ogni volta al primo dolore credo
di avere.
A Saigon c’è una via che si chiama la
strada del sole, ecco io sono nata poco distante
proprio dove cade il tramonto, perché la mia pelle è
gialla e rossastra, perché il mio cuore è cenere e
fiamme per i tanti uomini che m’hanno almeno
sfiorata.
Ma quella notte ne ho presi tanti,
lo ricordo ogni volta per farmi scandalo al cuore.
Perché la guerra non è solo bombe, non sono solo i
bagliori che rischiarano a giorno le case sul fiume.
Non è solo morte, ma l’odore di stupro
nell´anima dentro, è una donna che cammina da sola,
un fratello ubriaco che si era scordato di farmi da
scorta. La guerra è una ballerina alle due di
mattina che esce ammantata di rosso di seta, che fa
tre passi insicuri lungo un marciapiede tra sterco
di cani e lattine di birra.
Ed io ne ho presi
quaranta in una sola notte, tutti diversi senza
mischiarne gli odori, ne ho presi quaranta dalle due
all’alba, quaranta davvero dai piedi ai capelli.
Nel posto più intenso dove sentivo possesso, dove
più stretta non potevo far finta che un cuore che
batte ne giustifichi il verso. Ne ho presi quaranta,
quaranta in tutto. Quanto una raffica fino
all’ultimo fuoco, d’un cecchino perfetto che non ha
sbagliato mai mira, tutti al bersaglio e mi
leccavano il collo, tutti sorpresi che i miei
fragili fianchi, tenessero testa ad ogni tipo di
voglia, avessero un posto per alloggiarci il
piacere.
Non so perché ti scrivo scriva
questo, cosa pretendo e perché tu lo debba sapere.
Forse soltanto perché era successo la notte
precedente a quando mi hai conosciuta. E tu non te
ne sei accorto, anzi nessuno se ne è accorto che nei
miei occhi c’era ancora il terrore. Forse perché la
guerra ci ha insegnato a mentire, ci ha insegnato a
distinguere il valore che una donna stuprata non è
una bomba nel cuore.
Tu mi hai vista ed io
ero sorridente nonostante quella notte ne avessi
presi quaranta, tutti diversi, perché natura
scivolasse dentro, nell’infinita certezza che ero
parte del mondo, come un cielo che è ventre di voli
d’uccelli di specie diverse, come un mare che nutre
grandezze di pesci affamati, come una gatta in
calore che porta nel grembo incroci di semi di razze
straniere.
Come me che ero soltanto la figlia,
d’una guerra che cominciavo a subire, a rendermi
conto che non era solo miseria e bombe, sangue e
corpi sfigurati, ma anche aliti densi di vino e di
birra.
Ne ho presi quaranta senza fiatare
perché m’ero promessa di resistere, tanto, seppure
avessi chiesto aiuto, chi mai si sarebbe avvicinato.
Sentivo nel mio ventre il destino e quello ho avuto,
uno ad uno come cani e sciacalli che aspettano muti
il proprio turno per finirsi la preda.
Erano
tanti e a tutti ho dato un nome, anche se poi, come
mia madre, confondo le mani e i capelli, misure di
sessi bianchi europei, e il colore degli occhi si
mischiava in una luce riflessa, la stessa che quella
notte proveniva dal mare, mista all’odore di pioggia
e di fango.
Ero stanca, ma cercavo di resistere
al dolore, perché non volevo sprecare un solo
momento, di quella rabbia che intensa mi spaccava da
dentro, di quel ricordo che vivo rimane indelebile
ogni volta che faccio l’amore.
Il giorno dopo
sono andata comunque alla Maison, mi sentivo senza
fili, sballottata, cercavo protezione, quando sei
comparso tu.
Forse volevo solo che tu conoscessi
il mio stato d’animo e perciò ho accettato la tua
proposta senza fiatare.
Ora
era tutto diverso
“Ce l’ho fatta!”
Ero immobile tra voi due che dormivate, giuro
tranquilli, niente di più facile, bastava soltanto
dirlo e voi non avete neanche risposto. “Perché non
c’è ragione nel sentimento che provo, non c’è motivo
di mettersi contro la corrente che fluida trasporta
lontano senza sapere dove, ma col piacere di
obbedirle.”
Pensavo soddisfatta tra i vostri
corpi.
Nel bagno, mentre ci struccavamo dopo
il ballo all’ambasciata, tua moglie m’aveva baciata
a lungo.
Avida, prima di venire a dormire,
m’aveva succhiato la lingua e la gola, m’aveva
stretto il seno fino a darmi dolore. M’aveva detto
puttana, come te la prima volta, perché si era
accorta del tenente francese che insolente avevo
lasciato strusciare, sul vestito, sul sesso, che tu
avevi lasciato penosamente voglioso.
Mi diceva
puttana e mi baciava le gambe, in ginocchio sul
pavimento del bagno. Ero io la padrona! Leccava il
mio sesso per sentirne il sapore e constatare che a
nessun uomo quella sera avevo aperto l’ingresso.
Mi diceva puttana e mi faceva giurare che ero solo
una serva di sua proprietà e nessuno mai avrebbe
varcato quella soglia, se lei non avesse voluto.
Tremavo, avevo paura che tu ci sentissi. Era
pazza, pazza di gelosia fino a che ha voluto che io
facessi altrettanto dissetandomi del suo miele.
Appoggiata al lavandino e col ventre proteso mi ha
coccolato la testa e poi spinto verso il suo piacere
infecondo, verso la brama più intensa che copiosa
scendeva e mi bagnava le labbra. Poi un rumore e
tutto è finito di colpo.
Sono venuta in
veranda e tu mi hai chiesto scusa. Ma scusa di cosa?
Che mi ero fatta tua moglie? O che poco prima avevo
raccolto la sua voglia con la stessa bocca che
avresti voluto baciare?
Ti ho guardato
spalancando gli occhi. Volevo che tu capissi. Ma
davvero non riuscivi a leggermi dentro? Stavo
impazzendo pensando a te, a lei, alle mie gambe
ancora bagnate dalle voglie di una femmina intatta.
Subito dopo ci ha raggiunti in terrazzo ed è
stato naturale dirvi che avrei dormito nel vostro
letto. Proprio lì nel mezzo, come un bimbo nella
pancia di sua madre. Non c’era altro posto che
potessi occupare.
Dio! Non vi siete neanche
guardati. Che so io… consultati con uno sguardo.
Nemmeno un cenno d’assenso. Avete immediatamente
detto di sì, come fosse la cosa più naturale del
mondo.
Però per me lo era, sai.
Tra voi due
Ero di tutti e
due anche se l’uno pensava che non fossi dell’altra
e l’altra s’illudeva di saziarmi nel ventre per
zittire l’istinto d’un maschio che chiama. Ero lì
che sfioravo il calore di pelle, i dubbi dei cuori
immobili e muti che non chiedevano altro.
Per
tua moglie era un atto dovuto, lavare la colpa che
m’aveva macchiata, come se il francese m’avesse
scopata davvero, come se i miei peli che sentiva tra
i denti non fossero bastati a chiedere scusa. Per te
soltanto un atto d’amore come se le mie mani
potessero afferrare la tua parte incompiuta, darti
la cura che chiedevi ogni volta, ogni donna tranne
tua moglie.
Tu stavi ascoltando i miei
pensieri e nel buio ho sentito due labbra soffici
baciarmi i capelli. Ho sentito una mano che si
infilava nella stoffa, tu non sapevi del tenente
francese, ma eri geloso lo stesso, geloso di non
essere alla pari di tutti gli uomini che avevo avuto
finora, di quei quaranta che ignoravi ma affollavano
ancora i miei incubi. Mi sei venuto vicino, ma io
non avevo più bisogno di conferme.
Ti amavo e la
notte di colpo m’è sembrata più chiara. Mi domandavo
per quale mistero v’eravate affidati ad una puttana,
anche se di buona famiglia, anche se una delle 150.
Capivo perché il primo giorno eri andato
via. Tu cercavi sicurezze e sei voluto tornare con
tua moglie che involontariamente mi scegliesse.
Ero sicura che non stavi fingendo, che tu volevi
amarmi autonomamente da lei e dal suo giudizio. Mi
domandavo se m’avresti scelto comunque. Anche se lei
non fosse stata complice dei tuoi fallimenti, dei
tuoi tentativi d’essere maschio tra le sue gambe?
Ma quella sera era cambiato qualcosa, la gelosia di
tua moglie al ballo, il continuo cercami per non
essere sola. Mi voleva tutta per sé, medicina e cura
delle sue astinenze, medico e terapia delle tue
impotenze.
Mi scaldava ogni volta portandomi ad
un flebile orgasmo, come se mi tenesse viva ed
avesse il timore che in qualche modo potessi
sfuggirle.
Perdonami! Non potevo fare più a meno
dell’una e dell’altro. Godevo nel governare la danza
delle vostre insoddisfazioni, scardinare da dentro
due anime inquiete, voi m’avevate cercata ed ora
sentivo d’essere bella come non lo ero mai stata,
come una donna contesa.
A
passi felpati
A passi felpati per non
sentirmi un’intrusa, avrei voluto entrare nei vostri
sogni e vedermi come quando il riflesso di uno
specchio mi scontorna le dita e lascia in penombra
la scia che accarezza leggera i profili del seno.
Avrei voluto bussare in uno dei due senza
preferenza, perché uguali a quell’ora di notte
quando accanto dormiva un’anima in piena.
Mi
vedevo bella, bello il mio seno perfettamente
ricurvo alla vostre mani incavate. Bella quanto la
fantasia fertile s’illudeva di partorirmi, senza nei
e difetti, penetrata o solo espugnata da un fascio
di luna, mentre spicciavo i capelli ai bordi del
letto ed accavallavo le gambe di fame d’amore.
Mi vedevo donna perché nata dalle menti digiune,
che il desiderio confonde e la ragione non è di
conforto. Mi bagnavo al solo pensiero che sgorgasse
copioso all’idea che la mia anima di colpo fosse
seno e forme, succube dei rivoli del desiderio che
da solo colava senza nessuna apparente ragione.
Ma avevo paura che essendo notte non fosse stato che
un sogno soltanto, che l’alba avrebbe appiattito il
desiderio che inseguivo da giorni, d’essere
indispensabile alle vostre fragili vite supplendo
carenze affamate d’amore.
Non so perché mi
abbiate concesso di stare lì in mezzo, di dirvi in
silenzio che vi amavo. Non so perché vi ho concesso
di immaginarmi più bella e di toccare il colore
delle mie mutande leggere. Perché vi ho promesso di
avere le ali e farvi volare sopra queste nuvole
d’amore che non nascondevano niente.
Nell’incanto d’essere parte di voi, d’essere il
vuoto che vi teneva distanti pensavo a te che
accanto dormivi. Eri lo stesso che confondevo nel
sogno. Pensavo a lei che m’aveva rivoltata e legata
perché io fossi solo corpo e fessura, uno squarcio
di pelle dove cercava fatica e riposo.
M’avrebbe presa di nuovo, ne ero sicura, dove la
gelosia ripone vendetta e consuma rivincite, tane ed
anfratti per donne che depongono uova, dove la
violenza non è offesa ma amore, piacere, un manico
di spazzola che fa le veci di un uomo, cogliendomi
sorpresa e impreparata al risveglio.
In fin dei
conti stavo chiedendo solo di stringermi, più forte
perché quel buio non fosse evanescente, che da un
momento all’altro non rimanesse che vuoto. Ma avevo
paura di essere io stessa il vuoto. Ed allora
m’aggrappavo alla mia voce che vera rispondeva, che
il domani era quello che stavo vivendo, ma avevo
paura che il giorno che stava nascendo mi
sorprendesse in un letto disfatto ancora da sola.
Tu dormivi, avevi il respiro pesante, quando la
mano di lei mi ha protetto prima il viso e la bocca
e poi come una lama è scesa nell’incavo dei nidi
dove gorgogliava bollente il piacere.
Sentivo
che era un atto d’amore, forse davvero il primo, che
nessun uomo mi aveva mai dato.
Ho preso
sonno con difficoltà in quell’alba più rumorosa del
solito. I francesi non erano vinti, i comunisti Viet
Minh non avevano la forza per gridare vittoria.
Venivano voci di massacri nella zona di Dien Bien
Phu. Qualcuno diceva che nella lontana Svizzera il
mondo stava trattando per noi. Mi risultava
difficile pensare che qualcuno si interessasse a
questa miseria. A scuola avevo imparato che se
dividi zero rimane sempre zero, ed allora cosa si
stavano spartendo?
Dio, che orrore la guerra.
Ma erano soltanto pensieri d’innamorata che alle
cinque del mattino era ancora sveglia.
Le amanti ufficiali
Mia madre era contenta e mia sorella aveva messo il
vestito della festa che si era cucita da sola
copiando il modello da una rivista francese. Mi
hanno domandato di te, se riuscivo ad esserti umile
compagna e trovare la pace nel cuore.
Per loro
tua moglie era solo un dettaglio come anch’io
credevo quel giorno quando comprasti dieci
biglietti. Come facevo a spiegare che da allora era
tutto cambiato? Che negli ultimi tempi soltanto una
donna m’aveva portato vicino al piacere, che tra te
e lei non c’era conflitto, ma un vuoto su cui m’ero
adagiata?
Loro erano convinte che ogni notte
prendessi il suo posto, e tua moglie tacitamente mi
lasciasse la parte più fredda del letto, che io
scaldavo.
Ed in effetti quel giorno non mi
fecero domande perché da queste parti è cosa normale
che una moglie si metta da parte, quando i desideri
del maschio rimangono intatti dopo l’amore.
Ci sono donne che non aspettano altro d’essere mogli
soltanto di notte e curano le anime e soddisfano i
cuori, a viso aperto, senza per questo doversi
nascondere.
Sono le amanti ufficiali, signore
vestite di viola con le unghie dei piedi smaltate di
rosso. Sono ex ballerine a tariffa, mogli in affitto
che suppliscono ai doveri avendo in cambio un
alloggio, vitto e consumi che chiederebbe una donna
normale. Ex puttane cadute in disgrazia che si
accontentano di un tetto temporaneo.
Non
sono concubine, mai si accavallerebbero alle mogli,
rimangono nel ruolo per cui sono state affittate,
signore di cortesia che non svolgono faccende di
casa.
Ufficialmente non offrono sesso, sono
regolate dalla legge come dame di compagnia, ma è
solo una patina di ipocrisia perché lo Stato e la
Comunità tolleri questa usanza diffusa soprattutto
nelle grandi città.
Non è difficile
trovarle, le vedi ovunque dove c’è folla. Basta
andare al mercato del pesce una mattina a buon’ora e
vederle a gruppi che parlano fitte in attesa della
prossima offerta. Sono lì che aspettano uomini e
donne che vengono in coppia, che insieme trattano il
tempo, il compenso di vitto ed alloggio, il motivo
per cui sono chiamate.
Quasi sempre lei, la
moglie, ha la pancia ripiena o troppi figli intorno
che spezzano il fiato.
La donna vestita di viola
discreta li ascolta. Ha una propria dignità e non
tratta mai con uomini soli. Sarà l’amante ufficiale
per un giorno, un mese, un anno di scorta per chi
avrà la fortuna di sfamarle la pancia e d’ospitarla
su un letto che avanza.
Le poche volte in
cui mi alzavo presto e andavo al mercato rimanevo a
fissarle chiedendomi se dalla vita non potessi avere
altro e se quella sarebbe stata l’unica meta
concessa ad una ballerina a tariffa.
Me lo sono
chiesta anche in quei giorni, in effetti cos’ero se
non un’amante ufficiale, la vostra, anche se ancora
troppo giovane. Mi chiedevo se stessi facendo
soltanto le prove!
Mi disperavo ma poi
convinta tornavo a sorridere pensando che tra noi
non c’era soltanto un gelido patto, un contratto.
Voi eravate due persone che cercavano amore e che
l’ipocrisia in cui eravate vissuti non vi permetteva
d’essere chiari e trasparenti.
Sarebbe stato
tutto più facile avere un’amante ufficiale!
C’eri
tu che mi convincevi che sbagliavo a pensare. C’era
lei che forse m’amava davvero!
Tu mi guardavi
nell’anima aperta e tentavi di dirmi che stavo
sbagliando a pensare, che l’amore che sentivi non
era condivisibile con altre persone, che era un
sogno, una fuga da Saigon lontano da tua moglie. Ma
come potevo accettare?
C’era lei che in quel
momento mi stava aspettando sotto casa di mia madre.
Ferma e impaziente dentro un taxi.
Aveva
paura che io potessi rivedere quel tenente francese
o qualche altro tenente che lei non conosceva,
qualche altro francese che mi consumava la voglia
sopra il pavimento di legno di qualche catapecchia
lungo il corso del fiume.
La vedevo dalla
finestra, ogni tanto usciva dal taxi e guardava in
alto. Era bella tua moglie. La mia Amante! Quel
giorno portava un vestito a fiori ed un ombrellino
bianco di stoffa. Passeggiava nervosa.
Mi faceva
immensamente piacere che qualcuno mi stesse
aspettando. Era un cuore che batteva, fremeva e
perdeva dei colpi. Ne ero orgogliosa, qualunque
fosse il suo sesso e anche se dalle parti del cuore
c’era un rigonfio di seno.
Mi faceva piacere, ma
non mi bastava.
Ogni volta che scendevo da
casa di mia madre mi scrutava dalle caviglie alla
fronte. Analizzava ogni parte del mio vestito per
non trovarci macchie e pieghe sgualcite, residui
indelebili di segni d’amore.
La vedevo che non
si dava pace. Era l’unico posto al mondo dove non
poteva seguirmi. Mai avrei tollerato il minimo
dubbio negli occhi di mia madre, nel sorriso
malizioso di mia sorella.
“Quando mi guardi, i
tuoi sono occhi di innamorata! Chiunque se ne
accorgerebbe… tranne tuo marito naturalmente!”
Lei lo aveva capito.
Scendevo e rientravo nel
vostro mondo, nel suo, in cui lei sguazzava, ma a me
andava stretto, perché come le amanti ufficiali io
mettevo armonia, e come ballerina a tariffa mi
mancavano i fiori, due mazzi con i biglietti bene in
vista, perché fosse chiaro che non c’era inganno in
quello che facevo e l’amore che offrivo era la somma
perfetta di due parti uguali.
Il ventre del mare
Quella sera in
veranda sono rimasta atterrita, parole grosse,
insulti e rimproveri per l’unico fine di procurare
dolore ed offesa, di farvi del male senza ragione.
Eravate veri ed io ho spento ogni mio dubbio.
Io
guardavo il mare, le navi che partivano mute, lo
sforzo e il dolore, i bordelli e il quartiere cinese
che intatto continuava la vita di sempre, dove
nessun francese s’era mai sognato di entrare.
Le navi partivano cariche d’amore e speranza di
trovare la pace in qualche altra parte del mondo, di
trovarci un lavoro perché avevano braccia ed avevano
mani, sudore che avrebbero offerto per uno stomaco
pieno.
Guardavo quel mare, lo stesso che faceva
da profilo a chi s’accusava di santa ragione, a te
che le rimproveravi d’averti lasciato da solo nelle
notti da lei passate fuori di casa, in cerca di quel
compenso che pretende una donna, che non è affetto,
non è amore, ma impellente bisogno di sentirsi
considerata.
Sono sicura che lei non avrebbe
avuto nulla da dire se io non fossi stata presente.
Ti avrebbe lasciato parlare, sfogare, per poi
tornare dentro la coltre della sua freddezza.
Mi
rendevo davvero conto che quella non era una
commedia, e lei non credeva che io ne fossi al
corrente. Ti lanciava sottintesi per non essere
chiara, per non essere scura davanti ai miei occhi.
Oddio che pena! E tutto perché la mattina ti eri
rifiutato di andare al ricevimento della moglie del
console. Secondo lei ti avrebbe portato vantaggi nel
lavoro e nella sistemazione poco decorosa che io vi
avevo trovato.
Era evidente che non era quello
il motivo, che non c’era pace nei vostri occhi. Al
minimo accenno eravate nemici, alla prima parola
storta vi vedevo sprofondare negli abissi dell’odio,
della rivalsa, della rivincita.
Ti sei
alzato lasciandola urlare, si è alzata continuando a
gridare, mentre io ad occhi chiusi guardavo il mare
senza più i vostri profili.
Era un mare profondo
dove m’abbandonavo leggera, mai sarei potuta andare
a fondo perché ero ancora convinta d’averlo trovato
nel ventre delle vostre anime vuote.
“Sei la sua
amante vero?”
Ma quella era una sera
diversa, una nuvola rara velava la luna. Mi sei
venuto vicino e mi hai accarezzato le spalle, ridevi
per cercar comprensione.
“Sei la sua amante
vero?” Ti eri fatto serio.
“Dimmi che già ti ha
fatto godere.” Non rispondevo, ma come se l’avessi
fatto senza raggiri.
Eri seduto mi stringevi le
cosce.
“L’ho capito dai suoi occhi troppo
aggressivi. Lo è sempre stata quando ha un amante.
L’ho capito dal tuo sguardo equidistante che non ha
guadagnato la sponda per guardare dall’altra parte
del fiume.” Mi stringevi più forte.
“Se l’hai
fatta godere, te ne sarà grata per sempre! La
conosco, ha l’anima a forma di sesso quando prova
piacere. Nella sua carne s’annida il conflitto di
non poter essere di un unico uomo.”
Ero
contenta, era la prima volta che mi parlavi di lei.
La tua mano continuava a salire fino a sfiorarmi il
sesso. Poi discretamente sei entrato. Ero felice che
sentissi le sponde bagnate. Non capivo le tue
intenzioni, non sapevo dove il tuo dito mi avrebbe
condotto.
Hai voluto che ne assaggiassi il
sapore per guardarmi negli occhi e provare cosa
prova una donna quando assaggia sé stessa. Eri
intraprendete ed ero felice. Non l’avevi mai fatto
così vicino al rischio che ci potesse vedere e non
capivo se fosse una rivalsa perché in tua assenza
avevamo giocato da sole o una sconfitta di maschio
che vede negli occhi una donna che gode.
M’hai trascinata fino alla ringhiera di legno,
Saigon m’avvolgeva e tu eri attratto da quel dito
che continuavo a leccare. Non c’è voluto molto. Mi
sporgevi nella notte e m’alzavi il vestito.
Obbediente colavo e mi facevo toccare, inghiottivo
la mia faccia nell’oscurità della notte.
Cos’ero per te in quel momento?
Soltanto un corpo
o una piccola puttanella che si era fatta tua
moglie. Oppure l’amante sognata nelle mille
escursioni al fronte per scrivere un pezzo.
Ero
solo una fica, e tu sei entrato come Cesare
nell’arco di trionfo, come un generale che saluta le
truppe.
M’hai scopata davvero, senza remore e
dubbi, per dimostrarti d’essere vivo, per mostrarmi
che quello era sesso, maledetto e violento, d’un
uomo che era anche maschio.
Chissà cosa avrebbe
detto tua moglie? Ma il destino l’ha lasciata in
bagno ancora ad urlare, a pensare che non ci sarebbe
stato rimedio alla tua impotenza.
Guardavo
le navi partire, ma ora non c’era tristezza, perché
per me era amore, assolutamente la prova che m’amavi
davvero.
Mi fottevi come un animale in calore
che non chiede altro che quello che sente e giura e
stragiura che nulla potrà mai essere meglio.
“Sei una puttana no?” Affondavi i tuoi colpi,
rischiando di cadere nel vuoto.
“Sei una puttana
no?” Sì lo ero, ma non capivo cosa rispondere, se
dovessi giudicarti dal sesso che mi stava
riempiendo.
“Ho ancora nove biglietti vero?”
Spingevi e m’alzavi con la sola forza del sesso.
“Allora posso scoparti ancora nove volte a mio
piacimento!” Eri crudo, ma sentivo che mi volevi
bene.
“Lei lo paga il biglietto?” Ecco la gelosia
che usciva fuori.
“Dimmi se mi senti. Se pochi o
nessuno sono arrivati più oltre.” Sbattevi gli occhi
e mi stringevi i fianchi. Sbattevo gli occhi e ti
strappavo i capelli.
Ho gridato: “Nessuno.”
Perché tanti erano andati oltre, tanti fino a
ferirmi la carne, ma nessuno s’era spinto fino a
spellarmi anche il cuore.
Poi un attimo e ti ho
sentito bollente, un niente e m’hai gridato
nell’orecchio che saresti stato qui dentro per
sempre.