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RACCONTI

1

Adamo Bencivenga
L'erede
SECONDA PARTE






 


DANITA-CHARLOTTE VARGAS




Come detto, ultimo di sei figli e di due aborti, Camilo non conobbe mai sua madre. Convinto che fosse nato a separazione avvenuta una notte di fine aprile si mise in viaggio da San Diego d’Arrabal in cerca di sua madre. Le sue affannose ricerche, quando ormai aveva conquistato una solida posizione finanziaria, si bloccarono molto prima delle sue origini tra un bordello di Siviglia e la diffidenza della gente del Sud verso il forestiero che aveva fatto fortuna. Del resto Camilo non aveva mai nascosto le sue ingenti ricchezze e in ogni occasione ostentava il suo stato di benestante.

Col suo vestito gessato blu e grigio s’appostò per mesi e mesi davanti ad una casa rosa in stile berbero con le persiane chiuse, nella quale, per sola propria convinzione, credeva d’esser nato. Furono giorni e mesi di pazienti attese e di repentine delusioni, ma la sorte non ripagò la sua innata testardaggine. Non vide mai una donna entrare o uscire da quella casa e mai una gonna di stoffa leggera e variopinta fece sobbalzare il suo cuore. Purtroppo per lui vide varcare quella soglia solo da uomini col cappello, vestiti da signori, che battevano insistentemente senza grazia quel grande portone di legno oltre il quale per pudore o presunzione non volle mai entrare.

Seguì invano qualche altra pista, chiese consiglio e conforto elargendo piccole somme di denaro, s’imbarcò in una tribù di gitani stanziali a Isla Mayor, finché una vecchia del posto, poco fuori città, mai stata moglie, mai stata madre, senza più capelli e senza più voglie, individuò nei fondi del caffè la strada maestra che lo condusse a ritroso nella memoria della sua infanzia. Rivisse giorni, luoghi e facce da tempo dimenticati, vide aquiloni multicolori e pony da corsa, sentì nitidamente l’odore della prima spremitura delle olive, la raccolta delle arance e la sgranatura dei fagioli, rivide in un flash back muri di muffa e materassi di crine, suore arcigne, stanzoni enormi e file di letti di ferro nero a castello. Finché riconobbe le lunghe gonne colorate di sua madre, i vestiti di fine tessuto morbido, il profumo dolciastro della pelle, le dita lunghe affusolate.

Il tintinnare dei cerchi d’oro e le unghie appuntite smaltate di rosso si fecero sostanza e ricordo, di nuovo adolescente s’accovacciò in quel calore, ma ogni qualvolta che tentava di alzare lo sguardo il viso di lei sfumava fino a dissolversi completamente. Provò più volte, accese di sorpresa la luce per ingannare la malasorte, bevve infuso di terra, grano e rosmarino per fortificare la concentrazione e solidificare il ricordo, ingerì code di rospo crude e foglie di pepe e petali di zafferano, ma niente. L’immagine di lei nitida fino al collier d’oro, con il ritratto seppiato di sua nonna, si sgranava in tanti punti bianchi incandescenti fino a vedere in trasparenza la luce del cielo.

Tentò nelle notti d’estate puntando l’orizzonte senza stelle, ci riprovò nei tardi pomeriggi d’inverno cambiando ogni volta prospettiva, girò più volte di scatto il volto per imbrogliare il suo sguardo, ma non vide mai gli occhi di sua madre, mai un sorriso di quelle labbra che immaginava grandi e rosse, mai un ghigno complice e materno contro il futuro avverso che ancora neonato allontanò i loro destini.
Furono giorni di speranza, furono notti di sudori e bevute di moscato e sangria, furono pomeriggi interi di bettole e puttane che gli vuotarono le tasche e la fiducia, finché desistette esausto dormendo per un mese intero dentro l’unica pensione del posto da poche pesetas, sotto un sottotetto di mosche e di zanzare.

Fu lì che vide sua madre, e vide anche il suo viso senza rughe, giovane e aggraziato. Ogni notte per un mese lei si coricò nel suo letto e senza dire parole pretendeva amore. Vestita della sola luce della notte andalusa godeva e strillava, gemeva e rideva pregandolo di starle vicino, di guardarla e sentire quel calore grasso di terra fertile, saziandolo come da bimbo alla fonte del suo latte materno.
La sua voce era armoniosa come una merla in amore, le sue cosce calde, il suo fiore aperto e succoso, troppo giovane per essere vero, ma a Camillo non venne mai il dubbio, anzi ogni qualvolta s’insinuava nella sua testa un pensiero molesto cercava con tutte le sue forze di ricacciarlo da dove era venuto.
Tornò la brutta stagione, si comprò un cappotto e un cappello di pelliccia, le giornate si accorciarono, il seno clandestino e gommoso di sua madre non riuscì più a dargli conforto, a fatica riusciva a prendere sonno finché un mattino bianco e rigido s’alzò convinto di aver sbagliato completamente tutto e che le tette della donna che ogni notte lo andavano a trovare erano perfettamente identiche a quelle di Henriette, la figlia dell’oste, che ciondolavano libere ogni qualvolta lo serviva a tavola.

Passarono ancora alcuni giorni, nonostante la giovane età Henriette era molto esperta, lui ormai consapevole e deluso l’accoglieva distrattamente nel suo letto, fin quando l’oste avendo sospettato qualcosa s’appostò di notte e vide sua figlia con una candela in mano salire le scale della pensione e sospingere delicatamente la porta dello straniero. La vendetta fu immediata, armato di coltello da cucina, sorprese i due amanti nudi nella penombra della stanza, scansò violentemente la figlia e senza pensarci due volte s’avventò contro il fallo eretto del forestiero. Fortunatamente la lama colpì di striscio la regione inguinale risolvendosi con sette punti di sutura cuciti alla buona da un medico amico di Henriette, ma il fatto lasciò a Camilo degli strascichi psicologici indelebili.
La notte stessa, tra la disperazione di Henriette, la quale si prostrò a terra minacciando il suicidio, raccattò le sue cose e in meno di un’ora era già in cammino incontro al suo futuro sulla strada che lo portava fuori città e con la certezza che l’amore vero gli avrebbe fatto superare quei tristi avvenimenti e l’irrefrenabile desiderio di conoscere sua madre. Ma non fu così.

Prese qualche treno, rincorse qualche sogno, s’accasò da una contadina vedova giurandole amore eterno, s’arruolò in un esercito di disperati in lotta per l’onore, sfuggì diverse volte alla morte, fece il tassista a Tangeri e il marinaio a Suez, divenne governatore di una piccola enclave greca a sud di Cipro, studiò ingegneria a Damasco e teologia ad Atene, sposò con rito berbero la figlia quattordicenne di un mercante di spezie ad Aqaba, amò donne bellissime senza mai però avere un rapporto completo, conobbe i suoi fratelli a Danzica, tornò in Spagna, tornò a San Diego, finché un pomeriggio tardi quasi senza luce vide in penombra in fondo alla vallata una fonderia in disuso abbandonata da anni……….



*****

LE FONDERIE

 


Camilo era ancora lì seduto sulla sua poltrona di cuoio rosso, in bocca sentiva ancora tracce dell’ultima goccia zuccherata del suo unico caffè giornaliero. Consultava soddisfatto i libri contabili. Da qualche anno, dopo una crisi economica spaventosa che aveva investito tutte le aziende della zona, le Fonderie Saviola Duarte avevano ripreso a pieno ritmo il lavoro impiegando tutti gli uomini sani e in età adulta del paesino di San Diego. Ogni 30 del mese, giorno di paga, Camilo, chiudendo i conti, con aria compiacente, elogiava sistematicamente il suo ingegno, che in poco tempo gli aveva permesso di sbaragliare la concorrenza ed arricchire il proprio patrimonio.
La fonderia si era specializzata negli anni nell’innovativo processo di fusione a cera persa che garantiva un’altissima finitura del pezzo finale riscuotendo così un elevato successo tra la clientela più esigente.

Alle Fonderie il lavoro era molto duro. Gli operai, tutti al primo livello avevano a disposizione 12 minuti d’intervallo continuativi su 11 ore di fatica. Il sindacato, in considerazione dell’atroce sfruttamento, aveva vinto una laboriosa vertenza. Ogni operaio, a propria discrezione, poteva ripartire i 12 minuti nell’arco della giornata.
Al dunque non cambiò nulla.
Il pranzo e le funzioni fisiologiche consumavano ugualmente in un unica soluzione tutto quel prezioso tesoro. Non era permesso ammalarsi pena il licenziamento in tronco e non godevano di ferie straordinarie, permessi, assenze giustificate o quant’altro.

Oramai Camilo il forestiero, chiamato così non perché lo fosse realmente, ma perché era vissuto molti anni all’estero, si poteva considerare l’uomo più ricco di tutta la provincia e soprattutto benefattore. Da ben due anni gli operai anziani ricevevano regolarmente l'intero stipendio e gli apprendisti giovani potevano ben sperare per il loro futuro. Ed ogni fine mese, Camilo, sempre a corto di riconoscenza, riceveva ad uno ad uno i propri dipendenti seduto nel suo ufficio. Ad ognuno di loro consegnava personalmente la misera paga chiedendo sacrifici e rinunce e ricevendo immancabilmente smisurati gesti di devozione e obbedienza.



*****

SUA MOGLIE SUSAN



Ma non tutto andava a gonfie vele…
Camilo distolse lo sguardo, dalla finestra vide il cielo incupirsi alla sera. Il sole rosso e grigiastro di San Diego illuminava debole la vallata. Scorse attraverso le rade nubi il suo destino…
Susan, la sua amata moglie di origini zingare, manifestava sempre più frequenti sintomi d'inquietudine. Camilo non riusciva a comprendere come quel carattere docile avesse subito cambiamenti così radicali. Mite e remissiva celava in sé un'insubordinazione repressa pronta ad esplodere nel bel mezzo di una quiete apparente. Purtroppo non erano venuti bambini, il destino aveva voluto così, ma Camilo non era il tipo da rinfacciare nulla a se stesso ed ogni notte provava invano a far di quella notte l'inizio di una lunga dinastia.

La bella zingara non opponeva mai resistenza, svolgeva alla perfezione il compitino della devota moglie offrendo il suo stupendo corpo avvolto dalle sete del talamo bianco e ricco di ricami e passamanerie. Tutte le notti, escluse quelle della luna ma comprese quelle santificate, Camilo dopo i primi momenti di eccitazione abbandonava miseramente l’impresa. Nella sua mente imperversavano scene di duelli, capi tribù e vecchi stregoni che si contendevano giovani adolescenti e dissetavano le loro arsure con sangue fresco di vergini sacrificate alle regole della gente del deserto. Ma anche scene di locande nelle quali clienti ingordi compravano per tanto prostitute avvenenti che si vendevano per poco. Camilo, che aveva una incommensurata stima di se stesso, era convinto che quei fantasmi mentali fossero generati dal passato della bella Susan escludendo sdegnosamente che la causa fosse da ricercare nel suo passato e in particolare in quella notte che rischiò l’evirazione da parte del padre di Henriette.

Purtroppo, quale fosse stata la causa, ogni sera quelle effusioni si risolvevano in un fallimento totale e Camilo accontentava, per modo di dire, sua moglie in riti non canonici e supplendo alla mancanza di virilità con qualsiasi accorgimento.
Ebbe perfino un consulto con il medico del paese, il Dottor Ramos de la Vida, il quale gli prescrisse infusi di malva e peperoncino e una dieta a base di ostriche crude, carne rossa ricca di zinco, ferro, fosforo e calcio. Non fu facile per Camilo confessare ad un estraneo la sua momentanea debolezza, ma convinto che fosse solo di ordine psicologico, e quindi nulla avrebbe intaccato la sua virilità di uomo integro, si sottopose volentieri a quelle cure, purtroppo però con scarsissimo risultato. A dir la verità solo una sera riuscì a rimanere eretto per ben 21 secondi per poi tornare definitivamente allo stato di quiete assoluta.
Susan, dal suo canto, accettava quei fallimenti come si accetta il destino avverso avendo abortito da tempo i propositi di cambiare ancora una volta la sua vita. I suoi sogni erano ormai affollati soltanto di carovane di girovaghi senza terra che si spostavano continuamente di paese in paese senza mai assoggettarsi a regole, leggi e a qualsiasi fede.



*****

QUANDO CAMILO CONOBBE SUSAN



Camilo l’aveva incontrata il giorno di Natale in una locanda davanti al porto di Cadice. Lei danzava, avvolta in uno scialle nero, al ritmo di flamenco arabo sopra una pedana di legno. Danzava come una regina che sale sopra un altare, ronzando come una vespa in cerca di un nuovo fiore, al suono che scuote le vene, come le lame di un duello. Portava un diadema sulla fronte, un giglio tra i capelli, come le zingare di mare, come le nomadi di sabbia, con i cerchi grandi d’oro vero, e le labbra rosse come il cuore svasate quanto le sottane.

Aveva i capelli raccolti, una rosa rossa all’orecchio destro e una scollatura che non passava inosservata. Camilo, notò il tatuaggio di farfalla stampato dove il petto s’apre al sogno, dove la sua mano avrebbe indugiato come un viandante sulla soglia del tempio Egizio delle Regine. Lei sorrise e fece la ruota, poi al ritmo delle castañuelas, soffiò sul suo ventaglio rosso, e la sua voce emise un suono strozzato in gola come fandango, sul palato come flamenco, e poi lo invitò come una femmina di porto, come una donna di malaffare, che mostrava esperta le sue forme, e mostrava fiera i suoi contorni, puntando il dito sulla bocca come fosse l’approdo di vascelli e barche, attracco di lingue straniere. Simulò baci caldi tra le gambe, tra i colpi secchi dei tamburi e la musica di cardamomo. Camilo fu rapito da quelle note e dal vino nuovo, dall’odore d’anice e cannella immaginando quanto fossero invitanti quelle gambe, quanto buono il suo miele, denso dolce e fermentato, di tiglio, d’acero e castagno.

Camilo non conosceva quella donna e non si chiese se fosse sposata o se avesse venti o cinquant’anni. Camilo voleva sempre il meglio e quella sera il meglio era Susan. Lei dopo aver ballato si mise seduta al tavolo di un uomo dall’aria inquietante e vicino ai suonatori.
Dio com’era bella, com’era sensuale! Dava dei punti a tutte le altre ed era indiscutibilmente la più affascinante. Portava un corpetto nero aderente con una scollatura da capogiro e una gonna rossa lunga ed asimmetrica con uno spacco profondo decorata con frange nere.
E allora Camilo si fece strada, le andò vicino e di colpo la sala cadde in un silenzio d’attesa, cupo e profondo. Solo il suonatore cieco di violino continuò con i suoi accordi. Qualcuno fumava nervosamente rendendosi conto di quello che a breve sarebbe successo. Camilo la invitò con fare galante togliendosi il cappello e facendo un mezzo inchino. Lei rimase immobile e non disse nulla, ma il suo uomo tentò di reagire. Qualcuno sospirò rumorosamente, perfino il suonatore cieco di violino sbagliò per ben due volte l’accordo e il cantante, che aveva cercato invano di ravvivare la sala, stonò fragorosamente quando il coltello dell’uomo brillò sotto la manica destra.
Intorno tutti si scostarono, ma nessuna femmina fuggì, nessun uomo intervenne. L’uomo guardò Camilo con aria di sfida deciso a trattenere la sua donna, poi gettò ai piedi dell’uomo il mozzicone di sigaretta accesa. Rise e con fare sprezzante sputò sugli stivali lucidi di Camilo per dimostrare tutto il coraggio alla sua donna.
Ma durò poco. Quel riso si spense contro un pugno simile ad una cannonata. Quella forza di Dio lo colpì in pieno volto. Qualcuno sentì rumore di ossa. L’uomo cadde a terra, due denti schizzarono via nel vuoto insieme al coltello e immediatamente l’occhio divenne più nero della notte fonda.

Camilo per nulla agitato, si voltò, prese il coltello e lo ripose con cura nel gilet dell’uomo. Aveva vinto e inginocchiandosi davanti a Susan le chiese di ballare e poi, a voce più alta, in modo che tutti sentissero, le chiese la notte intera. Lei gli gettò le braccia al collo. Lui guardò di nuovo l’uomo, il sangue cominciava a insozzare il pavimento di legno, per un momento rimase perplesso, ma poi prese Susan per mano gridando ai musicanti di suonare tango e flamenco, e agli altri avventori di ballare e bere alla salute della bella dama. La musica passò come fuoco da una parte all'altra, la sala si rianimò e tutti cominciarono a bere e cantare.

Il tango salì e crebbe imperioso, seguendo le belle gambe dritte di Susan, lei schiuse le labbra come fosse già maggio, come fosse la rosa stampata sul suo scialle. Era bella con il suo viso sfrontato e i cerchi d’oro da zingara. Sapeva di meridione e di terra spagnola, di lunghi coltelli di sangue e passione, che a rivoli correva lungo la strada, come rigurgiti d’acqua risucchiati da fogne.
Qualcuno gridò da una finestra, erano urla di cuore e castigo, urla di gelosia che consumava vendetta, e Camilo continuava a toccare, e Camilo continuava a sfiorare quei seni abbondanti che sapevano di madre, di terra e tango, d’emigranti e lingue lontane. Sapevano di dominio, di quell’inetto dell’uomo steso ancora sul pavimento, incapace di difenderla, di dimostrare d’essere uomo vero. Le mani di Camilo scivolarono lungo la schiena, esperte ossessive si muovevano in fretta, a volte pesanti facevano attrito, a volte leggere seguivano le forme, come se sapessero quale fosse il momento, il punto preciso in cui una donna lasciava all’uomo il potere di sentirsi più maschio. Ed era tango, tango berbero, avanzi di notte e lamenti di mogli, che aspettavano sveglie l’ultimo turno, ed era musica sporca e rete di calza, era Susan, sesso aperto sulla sua stoffa voluttuosa, sulle pieghe del velluto raggrinzite d’amore, sul suo seno sciupato dai tanti amanti di notte, come ora Camilo perso dentro i suoi occhi, che valeva per quanto l’avrebbe fatta godere.
E allora Camilo si rivolse al violinista cieco e gli ordinò di intonare Naranjo en flor una Guardia vieja d’amore. Poi trionfante fissò gli occhi Susan.

Forse le disse ti amo o forse niente, ma c'erano le stelle a far da contorno e il ballo continuava come niente fosse. E Susan apriva la bocca in quel vortice di sensualità e pelle nera.
Le altre femmine ballavano coi forestieri, ma tutti aspettavano la reazione di quell’uomo ancora a terra che non venne. Era praticamente immobile, solo il suo sangue continuava a colare dal labbro inferiore e dall’occhio destro. Colava ed anneriva la cravatta rosso sangue. Il suo volto aveva l’aria stanca dei defunti. E pensare che era stato solo un pugno, un unico pugno! Una donna pietosa gli portò dell’acquavite e stracci bruciati. L'uomo non diceva nulla, non si lamentava. Susan lo guardava sperduta, ma continuava a ballare ed a farsi toccare i fianchi. Camilo era il suo nuovo uomo, forse solo per quella sera, forse solo per una notte intera! Lui allora la baciò e per rassicurarla le sussurrò all’orecchio: «Non preoccuparti, per morire bisogna essere vivi!»

Fu un colpo di fulmine! La festa finì prima di mezzanotte. Quando nacque il Bambino Gesù a mano a mano quasi tutti andarono alla Messa, anche l’uomo, anche il violinista cieco e loro due parlarono del più e del meno davanti ad una brocca di sangria al limone, lei disse che arrotondava la misera paga di ballerina aiutando il padrone a rassettare le stanze e la cucina, ma in realtà faceva anche altro.
Chissà perché Camilo quando la vide pensò a sua madre. Sta di fatto che se ne innamorò. Presero una stanza nello stesso locale e durante quella notte fecero l’amore, e quella fu l’unica e la sola volta che Camilo riuscì a penetrare la sua amata. La mattina seguente partirono insieme. Lei vestita da flamenco, lui con il cappello nero di feltro. Durante il viaggio parlarono molto e nei pochi momenti di silenzio Camilo pensava alle Fonderie, Susan al matrimonio.

E questo naturalmente avvenne pochi mesi dopo. Fu ineluttabile come la pioggia, fatale come il destino. Susan era di etnia Khorakhanè e, secondo la tradizione Rom, per avere il consenso da parte della sua famiglia Camilo dovette acquistarla con una ingente somma di denaro come sorta di risarcimento oltre a due cavalle incinte di sangue berbero che comprò da un commerciante libico. Lui non conobbe mai la famiglia di Susan tranne sua sorella gemella Jasmine, la quale fu l’unica parente a presenziare alla cerimonia.

Si sposarono con rito civile nella piazza di San Diego. Ci fu una grande festa tra lauti banchetti e abbondanti libagioni con tanta musica e con tanti buoni bicchieri di vino. Tra gli invitati anche il Sindaco con la moglie e Marguerite poco in disparte. Gli sposi sopraggiunsero accompagnati da una scintillante carrozza trainata da più pariglie di cavalli bianchi e grigi.

Per le fonderie invece ci vollero mesi per togliere la ruggine del tempo, anni per sentire il primo vagito di macchina in funzione. Ci volle tutte la benevolenza del destino per vedere splendere nella vallata a due chilometri dal paese di San Diego la grande scritta in legno e ferro: Fonderie Saviola Duarte.

Con la sola forza delle braccia e l’ingegno della mente Camilo iniziò a soddisfare le prime piccole ordinazioni raggiungendo ben presto quella indipendenza economica fino ad allora solo sperata. Furono mesi di dedizione completa allo scopo che qualche tempo prima sul seno gommoso di sua madre aveva giurato di raggiungere ad ogni costo.
Passò notti insonni e giorni di fatica, la sua ambizione gli concedeva di dormire al massimo due ore a notte fitte di incubi e depressioni vertiginose in fondo alle quali per qualunque altro uomo coscienzioso non vi sarebbe stata risalita. Ma Camilo non era fatto di quella pasta e non si perse d’animo convinto com’era che la forza della volontà alla fine avrebbe vinto anche quella della ragione.

 

 

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Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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