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RACCONTI

1

Adamo Bencivenga
L'erede
TERZA PARTE






 


 

LA GEMELLA JASMINE
 



Dicevamo, alcuni anni dopo Jasmine, la gemella di Susan, venne a stare qualche mese alle Fonderie. Le due si assomigliavano in una maniera spaventosa, praticamente due gocce d’acqua, ma in passato Jasmine, al contrario della sorella, non aveva frequentato bettole di malaffare e non aveva ballato il flamenco. Camilo, nel corso di quei mesi, si era domandato spesso se non fosse stata Jasmine la donna del destino e come sarebbe stato l’amore con lei.
Concludeva il ragionamento chiedendosi se quel giorno di Natale nella locanda avesse fatto la scelta giusta e se ora, a mente fredda, ne fosse ancora innamorato, ma sicuramente allora come ora era stato rapito da quella sensualità che, per via anche del suo blocco psicologico, ancora oggi rimaneva intatta e straripante.

L’idea dello scambio di persona, a causa del destino beffardo, rimbalzò nella sua mente. Una sera che Susan si coricò presto per via di una forte indisposizione, Camilo durante il dopo cena in terrazza mise al corrente la gemella dei suoi problemi avanzando delicatamente i suoi dubbi sullo scambio di persona.
Dopo qualche altro bicchiere di buon vino rosso andaluso avanzò sottovoce la sua proposta. Per dire il vero farfugliò qualche frase spezzata, ma il concetto era chiaro: l’unico modo per vanificare ogni dubbio sarebbe stato quello di concedersi entrambi ad una prova d’amore e constatare l’effetto che avrebbe sortito nelle regioni basse di Camilo.
Poi sì certo, parlò anche del destino e di certi racconti medievali nelle cui storie la felicità raggiunta non coincideva spesso con l’etica comune. Alle sue orecchie non era certamente una giustificazione, ma un modo per avvalorare la sua tesi nella convinzione che alle volte il destino occorre, se non proprio contrastarlo, almeno beffarlo.

Jasmine dapprima fece finta di non capire poi, sollecitata, rassicurò il cognato dicendogli che ci avrebbe pensato quella notte stessa.
Lei era al corrente dei loro problemi per cui l’idea non le sembrò completamente strampalata, anzi considerava una sorta di missione concedere le sue grazie al cognato per verificare quanto il destino a suo tempo avesse sbagliato o meno ed in caso contribuire affinché tutto tornasse nel giusto posto.

Camilo si sentì sollevato. In effetti le due donne si somigliavano come gocce d’acqua e nessuno mai avrebbe notato lo scambio. L’unica noia sarebbe stata lo scambio di nomi, se avesse accettato, per tutta la vita, avrebbe dovuto cambiare il nome in Susan. Del resto Jasmine era single e accettando avrebbe cambiato radicalmente la sua posizione visto che, diplomata in cucito e nel merletto a tombolo, per mantenersi gestiva attualmente una piccola lavanderia nella periferia di Siviglia. Susan dal suo canto avrebbe riacquistato l’agognata libertà, mantenuto il suo attuale stato di benessere e soprattutto per incanto sarebbe tornata single.
Come ultima raccomandazione Camilo fece promettere a Jasmine di non dire nulla. Qualsiasi fosse stata la sua decisione, sua moglie al momento non doveva essere messa al corrente di quel disegno.

Passò la notte ed anche il giorno dopo durante il quale Jasmine evitò di incontrare suo cognato. Parlò con sua sorella sondando velatamente il terreno e si convinse che Susan non sarebbe stata contraria a rimettere in sesto il destino. “Vorrei tanto aiutarti!” Disse Jasmine ma ci mise così tanta enfasi che la frase girò più volte nella mente di Susan.

Venne la sera e Susan, per via della solita indisposizione o perché aveva fiutato il piano, non si presentò a tavola preferendo una cena a base di verdure e ceci nella sua stanza.
Davanti ad una bottiglia rossa di Madera Camilo attese con ansia la risposta di Jasmine. Anche se in cuor suo aveva già intuito. La bella cognata si era presentata a cena sfoggiando la sua migliore mise con un vestito longuette di raso nero stretto in vita e un ampio decolté che risaltava la collana di onice nero e il suo presente molto generoso. I capelli raccolti e un velo di trucco le davano un’aria da signora degna di essere nel più breve tempo possibile la consorte del titolare delle Fonderie Saviola Duarte.

Durante la cena l’argomento non venne minimamente sfiorato. Lei parlò della sua infanzia, dei suoi amori e dei continui fallimenti, lui dei suoi progetti futuri e purtroppo della mancanza dell’erede. Poi al dunque lei non si fece trovare impreparata. La prese un po’ alla lontana, ma il succo del suo discorso fu che per il bene di Susan avrebbe fatto qualsiasi cosa. “Se il destino a suo tempo avesse davvero sbagliato persona era giusto e doveroso porvi rimedio.” Ovviamente tenne a precisare che non considerava la proposta del cognato come un atto dovuto, ma l’accoglieva con immenso piacere nei limiti della considerazione ricevuta.
Dolce musica per Camilo. Ma l’approvazione di Jasmine era solo il primo atto. Ora bisognava passare alle vie di fatto. Se la prova fosse andata a buon fine nulla e nessuno avrebbe potuto ostacolare quell’idillio.

Jasmine avrebbe preferito consumare la prova nei giorni successivi e in un luogo lontano mille miglia da quella casa e quindi da sua sorella. Di temperamento romantico si lasciò andare immaginando una casa davanti ad un lago o una pensioncina per vacanze termali frequentata da aristocratici. Tutto ciò fu però solo un vano desiderio, del resto non aveva fatto i conti con l’impazienza di Camilo.

Con un gesto elegante lui si alzò. I capelli lucidi di brillantina, il vestino nero gessato bianco, il foulard rosso sangue e la camicia bianca davano alla sua figura un aspetto carismatico. Con un movimento plastico fece il giro della tavola, accennò un breve inchino e le porse il braccio. Jasmine rimase esterrefatta e non le rimase altro che acconsentire. Come fosse un pavimento di nuvole fecero quattro passi lungo il corridoio, passarono davanti alla porta chiusa della stanza di Susan per poi ritrovarsi affacciati alla finestra della stanza degli ospiti al primo piano.

L’incanto della luna, gli effetti del Madera rosso ed un ululato distante di lupa in amore sgretolò le ultime difese della bella Jasmine. Camilo dietro di lei la strinse a sé, lei ebbe modo di apprezzare la sua passione cocente. Lui la baciò, dapprima sul collo lungo da cigno, e poi, scivolando lentamente la spallina del vestito, su quel seno dal sapore grasso di grano. Rimasero aggrapparti alla coda della luna, alla magia della notte per un tempo infinito per poi adagiarsi frementi di desiderio sul letto in attesa.

La voglia di Camilo, dura come la pietra, trasbordò dai pantaloni, impaziente cercò la fonte di quel piacere già pronta ed ospitale. Jasmine lo accolse come il destino, come un fiore al primo raggio di primavera e nonostante i suoi dubbi lo sentì maschio ed un urlo inaspettato sancì quell’amplesso. Durante quell’atto pensò perfino che Camilo si fosse inventato tutto per il solo gusto di tradire la moglie con un’altra donna identica a lei. Pensò che fosse davvero un blocco psicologico e si vantò di essere la medicina giusta per suo cognato. Urlò di nuovo e pensò anche altro, ma soprattutto alla lunga notte di piacere che l’attendeva.
Lui la baciò, la strinse, da uomo forte, con una facilità sconvolgente, la voltò come fosse una piuma, poi la baciò ancora, poi affondò di nuovo naufragando in quel mare di voglie, s’inabissò, nuotò, tornò a galla, impetuoso come un’onda gridò, giurò d’amarla per sempre… ma la scure del tempo era lì pronta e vigile e allo scadere dei 21 secondi si schiantò, come un battello contro gli scogli, sui propositi di lui e gli ardori di lei.
Tentarono di nuovo e più volte. Ricominciarono, andarono indietro fino alla coda della luna, fino al Madera rosso, ma niente. Purtroppo Jasmine non era esperta e rodata come la sorella per cui lui desistette da ogni altro tentativo. Rimasero in silenzio, si guardarono negli occhi sconfitti e delusi, finché lui raccolse i suoi vestiti adagiati sulla sedia ed uscì.

Camilo era troppo orgoglioso per addossarsi le colpe di quel fallimento. La mattina seguente si diede dello scemo e dell’incauto avendo provato le sue potenzialità con una donna troppo identica a sua moglie. Si convinse comunque di aver superato i 21 secondi e il merito non era assolutamente di sua cognata.

Nelle stesse ore Jasmine finse un’urgenza a Siviglia. Quando partì con la corriera di mezzogiorno Camilo non si fece trovare sul piazzale. Susan giudicò insolito quell’atteggiamento e notevolmente sgarbato ma non andò oltre.




*****

L’OMICIDIO
 


Passarono altri mesi, forse anni ed ora per appagare e raffreddare il suo sangue gitano Susan trascorreva giornate intere a passeggiare per chilometri lungo il filo spinato del recinto delle Fonderie fino alla casa di legno in disuso del giardiniere. Alle volte raggiungeva il grande cancello sulla strada per San Diego. Imparò a memoria buche, avvallamenti e zolle d'erba. Diede un nome ad ogni pianta, un senso ad ogni pietra finché, quando si rese conto che avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi il tragitto senza mai cadere, decise di scappare con la mente nel posto più lontano, oltre quel cancello di ferro, dove nessuno mai avrebbe potuto raggiungerla.

Nonostante tutte le attenzioni del marito, l'umore di Susan continuò a peggiorare. Iniziò a sottrarsi alla penosa pratica serale accusando addirittura finti mal di testa. Susan ormai aveva perso ogni fiducia e dopo il ciclo di infusi preparati amorevolmente con le sue mani si convinse che mai e poi mai il marito sarebbe tornato un vero maschio. Il suo atteggiamento divenne inconsapevolmente spocchioso e sfrontato.
Camilo dapprima la pregò di comprenderlo e soprassedere, ma una mattina di settembre perse la pazienza. Per timore che quell’atteggiamento potesse travalicare i muri della discrezione familiare e non avendo tempo da dedicare a quelle che lui considerava frivoli aspetti di vanità femminile passò alle vie di fatto cercando di rinsavirla rigando la pelle bianca del suo sedere burroso con una pesante cinghia di cuoio ruvido. Per giorni e giorni si affidò al primitivo metodo passando dalle mani nude alla cinghia e poi al bastone, ma il risultato non fu di quelli sperati. Susan, secondo la tradizione gitana non reagì e per una manciata di settimane, a causa del dolore, evitò di sedersi e tra una battuta e l'altra lo mise al corrente della sua nostalgia e dei suoi propositi di fuga in un posto dove mai nessuno avrebbe potuto raggiungerla. Camilo si rese conto che quel posto era solo nella mente di sua moglie, ma nonostante questo non aveva alcuna intenzione di liberarla.

Dal suo canto Susan non si diede per vinta. Quel tipo di trattamento violento a cui era stata sottoposta fomentò i suoi desideri di vendetta. Purtroppo al tempo la legge e soprattutto la tradizione Rom non prevedeva il divorzio o separazioni consensuali per cui convenne che l’unico modo per liberare se stessa sarebbe stata la morte di suo marito.
Pensò a vari metodi e ne dedusse che, per non essere compromessa, un avvelenamento lento e silente potesse fare al suo caso. S’informò leggendo pagine e pagine dell’enciclopedia di famiglia alla ricerca di una pianta o erba che non lasciasse tracce. Alla fine ripiegò sul classico fungo. Nelle sue interminabili passeggiate ne raccolse una cospicua quantità a suo parere decisamente velenosa. Da un decotto di qualche ora ne ricavò una sostanza giallastra, densa e appiccicosa. La sua prima vittima fu un cane randagio affamato. Il malcapitato animale dopo un pasto luculliano a base di carne e una piccola dose della sostanza sbarellò per alcuni metri per poi accasciarsi imbambolato ai piedi di un salice.

Convinta dell’efficacia della sostanza Susan passò alla seconda fase del suo disegno. Sempre per non essere coinvolta direttamente e fare in modo che la sua vittima ne assumesse poco alla volta anziché mescolarla nel cibo decise di praticare lo stesso metodo degli antichi monaci, vale a dire: cospargere il veleno sulle pagine dell’unico libro letto e riletto da suo marito, ossia “Le Gesta d’Orlando e Angelica”. Così facendo i fogli si incollarono leggermente e Camilo durante la lettura sarebbe stato costretto a portarsi le dita in bocca per inumidirli e poter così voltare le pagine.
Camilo era così innamorato di quel libro e che una volta finito ricominciava daccapo. Susan era sicura che il metodo fosse così infallibile che già alla fine di quella settimana avrebbe dato i primi risultati. Purtroppo, per lei, non tenne conto della scarsa forza velenosa della sostanza, la quale, dopo giorni e giorni di lettura, procurò a suo marito un leggerissimo mal di testa e qualche linea di febbre. Provò successivamente con una doppia dose, ma gli effetti non si discostarono molto dal primo trattamento.

Dopo circa un mese di tentativi, durante la sua solita passeggiata, con grande stupore vide spuntare da dietro una siepe il cane randagio. A quel punto si convinse che quel tipo di terapia non avrebbe portato alcun beneficio alla sua condizione di donna sposata.




*****

JOSE’ LAMBERT

 


Susan non si perse d’animo. La riconoscenza sempre inalterata per Saviola Duarte si era letteralmente disintegrata in quel penoso tentativo di omicidio e soprattutto ora si rendeva conto che tale gratitudine non era stata sufficiente a debellare quell’insoddisfazione mista a nostalgia che per lunghi anni l’aveva fatta vivere di ricordi e fantasia, di visioni e desideri sempre oltre quella finestra, quella fonderia e quelle colline che separavano la sua vista da ciò che unicamente considerava vita. E del resto la sua natura di ribelle contro ogni regola la portava ancora una volta a sfidare ciò che gli altri costruivano a fatica e ne rimanevano ineluttabilmente intrappolati. E questa volta il suo animo rivoluzionario la portò oltre il cancello di ferro battuto. Di per sé non era un gesto materialmente difficoltoso, il cancello era sempre accostato e mai chiuso con il lucchetto, e neanche un atto di ribellione estrema, visto che nessun accordo con il coniuge prevedeva che lei non potesse uscire dalla Fonderia. Ma sicuramente stava trasgredendo quelle che erano le sua barriere mentali alla ricerca di una luce nuova.

Era di Domenica e per quel suo spirito innato di essere contro si lasciò andare nei ricordi delle tante mattine dei giorni festivi passate a non far niente mentre nel locale si respirava l’aria dell’attesa e si carpiva il sapore del giorno vuoto che passava inutilmente, come un tuono a ciel sereno, senza musica, senza il ballo e senza quel dubbio che invaghiva le donne e le faceva vivere solo per il gusto di provarlo. A volte il desiderare di essere scelte andava oltre il piacere dell’unione carnale fino al punto inconfessato di sperare di non esserlo per apparire il giorno dopo ancora più belle.

Susan oltrepassò il cancello e percorse qualche decina di metri in direzione di San Diego fino a scorgerlo tra la sterpaglia secca che correva oltre il fiume a valle.
Da lontano vide un uomo seduto sul ciglio della strada. Il suo istinto le disse di continuare. In prossimità riconobbe la faccia dello sventurato Josè Lambert, un vecchio paesano seduto da anni lì, in prossimità del ponte.
Susan al tempo si era appassionata alla sua storia, conosciuta tramite i racconti spezzettati di suo marito. Aveva saputo l’amara vicenda di lui, sua moglie e il figlio concepito proprio lì su quella pietra dura. Ma sinceramente aveva sempre creduto che fosse una favola ed ora il suo stupore si stava facendo realtà e aveva la netta sensazione di immergersi in uno di quei libri colorati a tre dimensioni dei bambini.
Lo raggiunse e si fermò inevitabilmente davanti a quella pietra dura dove l’infausto destino aveva accolto José.
Da anni ogni mattina alle 5,05 il guidatore del pullman che portava gli operai alla fonderia rallentava in prossimità del ponte. José Lambert, seduto su quel ciglio di strada, alla vista della corriera faceva per alzarsi. Tentava invano di riprendere la sua vita normale, ma un destino ingrato lo risbatteva sulla pietra dura.

Susan lo guardò con aria di pena, poi passò delicatamente la mano sul viso dello sventurato. Lo chiamò per quattro volte in attesa di un cenno di reazione che non venne. Riprovò col solo movimento delle labbra, ma José sembrava essersi dimenticato il suo nome, chi fosse e per quale infausta ragione la sua vita s’era interrotta o continuava su quella pietra dura.
La guardò muto con lo sguardo anonimo ed assente, inconsapevole e convinto nella sua fierezza che nessun uomo, o donna che fosse, avrebbe potuto mai alleviare le sue pene.

Susan ebbe per un attimo la sensazione di essere trasparente, senza corpo, passata da parte a parte da chi assorto nel proprio dolore non incontrava ostacoli se non il limite umano del proprio pensare.
Lui fissava un punto preciso senza perderlo mai di vista, ingrandendo le sue pupille ai margini più ossuti dell’orbita dove la sterpaglia si faceva rovo e tutto il resto trasparenza, vuoto.

La casa di legno aveva retto per poco al vento e la pioggia, forse Josè non se ne accorse. Lui rimaneva lì immobile come se il trascorrere del tempo l’avesse fortificato alle intemperie, al freddo, al sole, alla notte dandogli la capacità inumana di concentrarsi sull’unico pensiero che gli dava ancora voglia di vivere. Ma ineluttabilmente aveva perso la parola, o meglio, quel modo di comunicare dove ci si perde facilmente in chiacchiere e forma trascurando e distorcendo l’essenza e la purezza del proprio pensare.

Per Susan era un dolore immenso, gli chiese più volte se si ricordava di suo figlio. Sillabò il nome di Carlito sperando in una sua reazione, ma niente.
Tentando di scuoterlo lo chiamò di nuovo, ma i suoi occhi rimasero fissi a puntare intensamente il nulla davanti a sé, il suo nome oramai non più familiare cadde nel vuoto come una parola straniera senza significato alla quale è impossibile dare risposta.

Sentì tutta la sua impotenza di fronte all’ingiustizia. L’ombra di quel povero uomo le rimase appiccicata addosso come la polvere della strada sulla sua pelle sudata. Il sole batteva a picco sulla pietra dura e lei conosceva benissimo la sopportazione del caldo, della fame, della sete, dell’attesa e di qualunque altro bisogno fisico quando la mente, colma di un unico pensiero, non riesce ad accogliere altro se non quello che in qualche modo potrebbe rimuovere il pensiero stesso. Pensò alla sua nostalgia mai debellata nonostante il destino le avesse messo di fronte un marito perfetto.
Sentiva in sé una forte contraddizione tra il desiderio d’avventura che la portava a scoprire fugacemente mondi diversi senza mai assoggettarsi alle nuove leggi e la nostalgia che la stava riportando in dietro e allo stesso tempo avanti, rappresentando contemporaneamente il passato e il futuro. Ma giustificò la propria nostalgia pensandola come uno stimolo a non sentirsi mai paga di ciò che si era fatto e soprattutto una riprova ad affrontare vecchie situazioni con uno stato d’animo diverso. In fin dei conti, pensava, la conoscenza di se stessi passa soltanto attraverso la lettura delle proprie reazioni al cospetto delle situazioni ricorrenti che ciclicamente si ripropongono.

Ai piedi della salita verso San Diego d’Arrabal fece i conti con il suo stato d’animo promettendo a se stessa di non dimenticare Josè Lambert l’uomo che stava lottando contro il destino accettandone nella battaglia la forza superiore e immancabilmente la propria debolezza.
Inevitabilmente pensò al suo destino, alla sua pietra dura sulla strada della libertà.
Sentì così forte la comune sorte che non proseguì verso il paese, ma fece marcia indietro oltrepassando di nuovo il cancello.

 

 


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Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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