Davanti a questo imbrunire vorrei inventarmi uno spicchio di rosso, che
non si facesse mai nero, mai azzurro, ma che ci accogliesse dentro questo
infinito bacio che non ha fine. Fanny oramai è distante, troppo lontano da
questo cuore in cerca di cura, in cerca di tramonto che trasmette calore,
in cerca di mani che ora mi stringono, che ora mi danno una strana
sensazione di non essere mai stata sola. Mi stringono come se avessero il
timore che non rimanesse che niente, come se io fossi una nuvola, una
dissolvenza, un sogno che all’alba si fa lenzuola e cuscino.
Marta è
qui incredula, i suoi occhi pettinano i miei capelli, il suo naso m’annusa
come se in fondo in fondo all’odore ci fosse un profumo che non riconosce,
un sapore d’amore lasciato dentro qualche dogana sperduta, dentro qualche
promessa che ancora batte e fa male. Si distende e s’inchina, mi bacia e
s’accovaccia perché è lei la femmina, i suoi baci mi lasciano un sapore di
olive salate, di ossi che spolpi e che sputi in faccia a chi per anni
m’aveva convinta che l’amore ha sembianze di maschio, la forma a punta
d’un pene che penetra mentre tu godi e ne chiedi per il tempo che lui ha
deciso.
La guardo e mi sfamo di tutti quei giorni che sono rimasta a
dormire nel letto. Sapesse mia madre cosa s’annida dentro due tette,
dentro due labbra che ora mi cercano tra altre labbra che non hanno
rossetto, dentro altro umido che come saliva nasce e s’abbonda al sapore
di sale. Se lo sapesse mia madre che tra due cosce di femmina c’è un pene
che mi devasta, più potente di qualsiasi uomo che finora m’ha fatto
abbaiare alla luna. Mi sembra incredibile che questo corpo esile e
biancastro possa comprendermi tutta, possa capiente tranquillizzare le mie
vene che battono, battono dal cuore alle dita, calmarmi l’ansia dell’anima
come quando ti prostri davanti ad un altare e t’affidi e confidi all’unico
che possa darti conforto.
Ci sono dei giorni che non usciresti da
casa, che non serve andare dall’altra parte del mondo per sentire un
flebile accenno d’amore, che come reti da pesca dividono i mari, come ora,
in questo momento Marta mi divide dal resto. Le sue labbra mi cercano
incessanti, come per trovare parti mai esplorate, come per farmi sentire
un brivido senza nome che non conoscevo. Lei non si rassegna, sento la sua
lingua che batte come un martello sopra una lama, che filtra, che ficca
dove nessun pensiero fa resistenza. Mi volta, mi lega e m’aggroviglia con
i suoi fili di fiato, con le sue dita che non hanno unghie, con questa sua
testardaggine d’affetto e d’ardore di farmi godere.
E godo sopra questo
imbrunire, sopra questa linea invisibile d’accettare le mani, il mio
essere dentro questo corpo che freme, che suda, che chiede come se bambina
non sapessi cosa ci sia in fondo, cosa tra poco m’irrigidirà seno e
cervello.
L’altro giorno in cucina era stato un assaggio, un
antipasto di mare d’aceto e limone. E poi le parolacce di Fanny, il suo
ostinato orgoglio d’essere unica, il sentirmi calpestata come foglie
d’autunno. Il mio bisogno d’aiuto, il mio bisogno d’amore che colmasse il
vuoto di uomini che entrano, escono e scavano, scavano e fanno buchi più
nell’anima che nella carne.
Ma tutto ciò è amore? Sono questi gli occhi
che andavo cercando? Sono queste le mani che ora mi stringono e mi
chiedono di farmi più piccola? Sono queste le labbra che mi lasciano il
sapore di olive salate? La lingua si insinua, si fa spazio, crea un buco
di vuoto ed entra nella mia bocca come lama in un burro, come spiedino in
una salsiccia. E’ la prima volta che bacio una donna così, ma poi rido
perché non ho mai baciato un uomo, neanche Luca ai tempi di scuola dove la
sua passione si fermava sulle mie labbra serrate.
Marta è muta,
qualcosa di Fanny ha capito! Chissà dove sarà ora? Chissà di quanti uomini
si ingozza e si placa. Tutto per amore di un uomo, quel pericolo
incombente che lei mi ha insegnato ad evitare, a riconoscere la notte
quando ti senti più fragile, a scacciarlo quando la luna alta ti vorrebbe
soggiogare. Credo che non ci sia di peggio al mondo che fare la puttana ed
essere innamorata dell’uomo che ti sfrutta, come un suino che fugge e
s’affida ad un salumiere, mentre io e Marta siamo qui e ci scambiano
gratis l’amore, carezze che ci graffiano la voglia interiore di non essere
sole.
Ti amo Marta. Mi cresce un sospiro che diventa un boato,
un’eco che sbatte, ribatte e prende vigore. E l’amore che grido è questa
saliva abbondante che mi bagna i capelli, è questo fiato che m’allarga i
polmoni. E’ mia nonna che mi prepara pane e olio, mio nonno con la sua
bottiglia di vino che sapeva di sale e sambuco. L’amore che grido è la
libertà di non avere paura, quelle preghiere infinite da sola nel letto
recitate a tre a tre. E’ mio padre che mai aveva dormito una notte fuori,
era mia madre che mai si sarebbe sognata di fare a meno della sottogonna.
L’amore che grido erano lunghi sentieri di fratte, era pioggia e lumache,
erano funghi, suoni di tamburi di latta l’11 novembre per festeggiare i
cornuti.
L’amore che grido è questa donna che mi chiama Giuditta, che
mi inumidisce le orecchie per sentirla più accanto, per sentire una voce
che proviene da dentro, che mi fa credere bella come mai nessuno specchio
m’ha persuasa davvero. L’amore che grido è femmina dentro, è bucata nel
mezzo e t’accoglie, ti fa galleggiare come un feto, un canotto che gonfio
e rigonfio perché non sia mai che mi ritrovi annegata ancora una volta,
che il risucchio di un vortice mi faccia pensare di stare meglio ai Bagni
Giuditta a far da scorta a Fanny che fa l’amore guardando in faccia il
cliente, mentre io che guardo il mare e la luna, mai respirerò il sapore
d’un fiato che sa solo di maschio.
L’amore che urlo non piscia all’in
piedi, non alza la zampa se mai fosse un cane, ma ha latte abbondante che
sfama e protegge, l’amore che urlo è un leggero rossore che colora
lenzuola quando accanto ancora dorme una bimba di pezza.
CONTINUA...
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