|
HOME
CERCA NEL SITO
CONTATTI
COOKIE POLICY
RACCONTI
Adamo Bencivenga
La notte delle stelle
Photo Niko Guido
“Ho mille posti dove sono stato. Nelle città dei
bugiardi, alle fiere del sorgo rosso dove si può
giurare il vero e negare fino all'alba, ubriacarsi di vergini
come fossero prostitute.” Dissi alla donna seduta al mio tavolo,
quando i musicanti intonarono i loro lamenti arabi. La
notte fuori era fredda anche se ormai era quasi giugno
e un gruppo di uomini attorno ad un falò beveva vodka
all’acqua piovana.
C’era una grande festa
fuori il villaggio e le donne si lasciarono rapire
dall’euforia delle corde melodiose dei violini.
Portavano cappelli neri leggeri e indossavano stoffe
di raso a fiori. Ballavano alzandosi le gonne e
muovendosi leggiadre come fossero già ripiene di maschio
mostravano la loro merce bagnata come pesce sui banchi
al mercato. Altre
invece in disparte esibivano tra i capelli neri un
grande girasole, simbolo della fertilità e richiamo
per chi quella notte avrebbe voluto apprezzare la
grazia e il consenso di gambe acerbe ancora intatte.
Era la notte delle stelle,
la notte del loro Capodanno, la festa al Dio
padrone di tutte le battaglie e in suo onore gli
uomini intonavano filastrocche delle loro terre,
storie di guerre e di montagna che parlavano di sangue
e di puttane uccise per la strada dai soldati
ottomani.
“Ho mille posti da raccontare,
mille nomi da ricordare e pensare che tu sia la
preferita.”
Dissi ancora alla donna seduta al mio tavolo. Lei mi
ringraziò e
ballammo per tutta la notte al ritmo di tamburelli e
sonagli fino a quando qualcuno nella locanda spense la
luce e ci invitò in malo modo ad uscire. Fu proprio
allora che la donna si stropicciò gli occhi incollati
di fumo e di mascara e mi pregò di seguirla. “Certo
non troverai il Paradiso, ma ho miele e resina da
offrirti e nettare a fiotti più alcolico della vodka
che hai bevuto finora.”
Nel dubbio risposi:
"Non aspettarti niente da me. Ho ingannato mille donne
spergiurando sugli uomini e sugli dei." Lei mi guardò
e sorrise: “Tu forestiero non puoi ingannarmi.” Disse
seguendo le orme rosse della sabbia. Portava uno
scialle viola dalla trama così sottile che non si
notava la cucitura, portava un ciondolo di ametista
tra i seni in bella mostra, come fa la nubenda in
processione, che incede e sa di sposa al primo fiore tra le vergini
in prima fila. Poi ci incamminammo e la seguii a due
passi di distanza, ammirai le sue forme, il ricovero
dei suoi fianchi e le onde della sua gonna che
obbedivano al vento di Samira che spirava freddo da
nord-est.
Finalmente arrivammo, la sua casa
era in mattoni bianchi e calce a secco, lei mi guardò,
tirò fuori una grossa chiave e prima di aprire la
strinse tra le labbra. Affogai d’improvviso nella sua
sensualità esperta, mi rapirono i suoi occhi e mi
sorpresi a venerarla come se oltre quella bellezza ci
potesse essere Dio, come se oltre quell’incanto
bastasse ancora Dio.
"Non aspettarti niente da
me." Le dissi ancora seduto alla sua tavola, mentre
lei ancora avvolta nel suo scialle raccolse i suoi
capelli. Poi mi offrì un piatto di riso con carne e
verdura e un vino corposo rosso e denso. Riempì il mio
bicchiere e mi pregò di bere: “Questo serve
all’amore.” Disse scoprendo il suo seno prodigo.
Io cercai di afferrarla, ma lei mi disse con
candore: “Forestiero, conosco le vostre abitudini
occidentali, qui il sesso non si consuma, ma si venera
e si apprezza, qui non c’è distinzione tra l’amore
romantico e quello a pagamento, entrambi hanno gli
stessi riti e le stesse regole.” Così dicendo davanti
ad un grande specchio ripassò i suoi occhi di kajal,
ravvivò un tatuaggio simile ad una grande bruciatura
sulla guancia destra e fece scivolare lentamente il
suo velo leggero.
La guardai come si contempla
un’opera d’arte. Era bellissima, araba, sfrontata,
nuda e bugiarda. Ma di una bellezza rara, senza
sentimento. Poi scostò la sedia, mi sorrise e si inginocchiò offrendo le sue labbra
di fragola e velluto al mio piacere, i capelli alle
carezze e il seno all’offerta generosa. Poi senza
parlare mi pregò di alzarmi, prese la mia mano, la
baciò e mi guidò nel paradiso.
Adagiò le sue
carni nell’alcova ospitale invitandomi col solo
respiro a gustare le primizie di quella terra soffice.
Aveva due occhi profondi come i pozzi nel deserto, due
cosce di ferro arroventato e un sesso coperto da peli
lunghi e neri dove sgorgò in un lampo nettare di palma
e sudore e poi miele denso e rossastro nel quale mi
abbeverai. Sapeva di selvatico e di incolto, di sangue
e di metallo come quello del vitello ammazzato la sera
prima e poi messo a scolare da suo fratello davanti la
porta che dava in strada.
Durante l’amore mi
disse amore nella sua lingua con parole calde e
profonde come il suo sedere, io le dissi ti amo nella
mia, ma faceva strano e ridemmo, faceva caldo e ci
amammo e la penetrai a lungo fino in fondo, fino a
quando i suoi gemiti intensi oltrepassarono
l’orizzonte e diventò giorno vero e il profilo della
luna la forma del suo seno.
Dopo l’amore mi
disse che non ero stato il primo, che non ero stato il
solo e le femmine di montagna non sono buone per la
terra, né per pascolare, cavalli berberi e somari,
neppure per difendersi dai predoni e gli assassini, ma
solo per accogliere tra le grazie il viaggiatore, ma
solo per accogliermi in quella notte pesta, e dirmi
che ero diverso, senza dirmi la ragione, e dirmi che
mi amava, senza conoscere il mio nome.
“Lo sai
che faccio il mestiere?” Mi sussurrò bugiarda dopo
l’amore, per essere ricompensata e scacciare la
miseria, come una donna di malaffare, come una giovane
concubina. Si accomodò sulle mie gambe e mi offrì
ancora, seduti in veranda, i suoi capezzoli grandi e
scuri e un infuso di thè alla menta. Sapevo che non
era vero e non le credetti, ma la guardai ancora e
vidi solo una vedova che offriva la sua grazia a
chiunque passasse di lì. Soldati affamati, forestieri
smarriti e camionisti per caso in quel villaggio di
frontiera dove non passavano i treni, ma solo carri
lenti carichi di sale.
“Ti porterò un regalo al
mio ritorno.” Le dissi accarezzandole la fronte. “Un
cappello, dei guanti, un vestito, forse un libro. E
poi vino allungato con l'acqua delle rose. E non filo
spinato. Forse baci. Forse tempo, per amare…” Ma non
era vero, perché mai sarei ripassato di là per il
semplice fatto che non avrei ritrovato la strada.
Lei
mi guardò attonita, disse parole senza senso o forse
un senso lo avevano, ma io non lo afferrai perché
d’improvviso pianse al ricordo di suo marito e mi
raccontò la sua vita, i tanti uomini passati in quel
letto ancora caldo, i pochi che rimasero più di una
notte. Poi fumammo hashish e guardammo le stelle ormai
sfumate dalla luce del giorno, ci baciammo e mi
sorpresi a venerarla come se lei si confondesse con
quelle stelle e come se per quell’amore ci volessero
ancora stelle e non fosse bastata quella notte.
Quando ci colse il sole alto
del nuovo anno lei mi disse grazie,
ma non mi chiese di restare ed io rimasi nel dubbio.
Presi le mie cose, pagai il dovuto e la salutai.
|
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
© All rights
reserved
TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso
dell'autore
Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori.
Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.
If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti
|
|