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RACCONTI
Adamo Bencivenga
Le parole
Immagina una città, il quarto
piano di un palazzo, immagina un’ombra dentro una
finestra, immagina la finestra, senza fiori e tendine,
l’unica con la luce accesa, l’unica a quest’ora. Ecco
immagina di avere uno zoom, una macchina da presa,
lentamente t’avvicini, entri nella casa, ecco immagina
la stanza, satura di fumo, le pareti giallo polvere con
due stampe giapponesi, fogli appallottolati sparsi in
ogni dove, sopra la moquette rossa, sul divano e il
davanzale, una macchina da scrivere, un posacenere della
Guinness, carico di cicche, e l’ombra che si muove, e
l’ombra è un uomo, e l’uomo uno scrittore.
Ecco,
ora immagina un mese, probabilmente agosto, non perché
ci sia un motivo, ma è notte e fa caldo, non tira un
alito di vento e l’uomo è in canottiera, bianca a
costine, una piccola luce gialla illumina la macchina, e
la macchina è un’Olivetti, sì, una Lettera 22. Fuori il
neon delle insegne sbatte intermittente sui muri e le
terrazze, fuori i gatti sopra i tetti, le chiome storte
di due pini, fuori una città muta, Roma, di sicuro…
Ecco, guarda nella stanza, il portatile è spento, perché
lui è convinto che il rumore di quei tasti, l’odore
della carta e quello dell’inchiostro, gli facciano
tornare la vena esaurita, il filo di quell’arte perso
per un niente, perso chissà dove nei meandri della
mente. O forse è soltanto una delle tante prove, oppure
non ci crede, oppure ora s’illude, forse è solo per
bearsi di questa solitudine, di uno scrittore che
s’atteggia in attesa di un lampo, per sentire
appiccicoso il rumore di quei tasti, il contrasto con la
città, le insegne ed i colori.
Ecco guardalo
ora, il viso in primo piano, i muscoli in tensione delle
guance increspate, la barba lunga incolta, la piccola
cicatrice sotto l’occhio destro, il sudore sulla fronte,
le rughe più profonde. Decisamente è un bell’uomo,
decisamente interessante, ma il viso è segnato, dal fumo
e dall’alcol, dal sesso a pagamento. Avrà quarantacinque
anni, forse poco meno, sta scrivendo il suo romanzo,
quella della vita, e pensa sia un capolavoro, almeno ne
è convinto, almeno lui ci crede o s’illude solamente.
Sta scrivendo il suo romanzo che parla di uno scrittore,
che da tempo si è bloccato, che da tempo più non scrive,
il genio si è dissolto, una miniera abbandonata, una
sorgente secca, che non irrora mente e cuore, una landa
sterminata di crepe aride al sole.
Ecco,
guardalo, si è immerso nella parte, ha preso le sue
sembianze, e si è incarnato così bene, che non gli
escono le parole, o meglio lui le pensa, o meglio lui le
cerca, ma appena lui le scrive si diradano in una bolla,
e d’incanto si dissolvono, sgonfie, vuote si disgregano,
e perdono l’effetto e l’anima l’essenza. Se solo le
annusasse, non sentirebbe il loro odore, se solo le
mangiasse non avrebbero sapore, se solo le toccasse
sarebbero impalpabili, né forma e consistenza, né sagoma
e struttura. Lui le ripete e le accarezza, le ricama
e le infiocchetta, ma sono mute, sorde e cieche, perché
il tempo le ha sopraffatte, vuote come un niente le ha
rese inoffensive, e lui prova e poi riprova, ma
scivolano sulla carta, altre si sbiadiscono e
s’afflosciano senza vita, e l’inchiostro diventa grigio,
bianco ed incolore, e poi danzano nell’aria, come
fossero foglie morte, come non fossero mai nate.
Ora immagina che immagini il suo protagonista, come lui
lo vede bello, moro ed abbronzato, testardamente preso,
cocciutamente ammucchiato, sul foglio e su se stesso,
sulla macchina e le parole. Ecco, così, con le spalle
incurvate e la schiena ad arco, i muscoli in tensione,
il ghigno cavo duro e maschio, nella stessa posizione di
chi ora fa l’amore, magari su una fredda pietra di un
tavolo di cucina, oppure in una macchina sul bordo di
una strada.
“Ah l’amore... l’amore è un
tramonto ad Ostia senza sole, l’amore è un ombrello per
ripararsi quando piove, l’amore è un bordello per uomini
traditi, l’amore è un coltello infilzato dentro il
cuore... Ah l’amore... l’amore è una luce che foggia il
vestito, sono lampi di notte che truccano il viso, di
tutte le piogge che cadono in mare, di tutti quei soli
che scaldano il cuore e intiepidiscono gli echi dei
tuoni incupiti… Perché l’amore è una luna che inarca le
curve e smussa le pene e spiana i dolori, come i cani
che abbaiano al buio di notte, come tornanti che a
gomiti vanno, e lasciano il gusto di meta e fatica, fin
sopra le vette che piene e fiorenti, danno l’essenza,
danno la forma...”
Eccolo lo vedi? Lui
continua, caparbiamente affonda i tasti, come fossero il
suo pene, come se sotto le sue mani ci fosse una donna,
di quelle a pagamento, magari di colore, magari cinesi
che non conoscono la lingua, ma la sanno usare, ma la
sanno inumidire, e servono per smaltire sbornie e
delusioni, incontrate per la strada, per sorte o per
destino, per caso in una notte sul viale del ritorno.
Non perché siano belle, ma hanno bocche esperte e
servono all’amore come i tetti quando piove.
Ok,
guardati intorno, c’è una poltrona a fiori, un vaso
finto di Shanghai, i fiori di stoffa grezza, l’orologio
sulla parete segna l’una e mezza, passa il tempo e lui
non se ne accorge, passano macchine, ma lui non le
sente, si alza e va in cucina, ecco, ora lo vedi? Si è
accesa la luce bianca, quella della finestra accanto,
sta prendendo della birra in frigo, beve direttamente
dalla bottiglia, poi torna nella stanza, ma non riesce a
concentrarsi, seduto davanti a quella macchina
infernale, anzi no, ora si rialza, è affacciato alla
finestra, i gomiti sul davanzale, ma non guarda la
città, in lontananza vede solo quello che scrive, il suo
mondo, i suoi personaggi. Li fissa, li disegna, ma sono
solo delle sagome, dei contorni senza linee, sono nuvole
a stracci e non hanno più carattere, né volume e né
portata, sono piatti senza anima. Sono le figure di uno
scrittore, che scrive di uno scrittore, che non ha nulla
più da dire, che non ha niente da sentire, nulla da
ricamarci una storia su misura, sono amorfe, insulse e
sciocche, senza il minimo spessore.
Ecco lo vedi?
È al bivio o forse dentro il proprio tunnel. Incastrato
dal suo genio. Sente che è un grande romanzo, ma se poi
non lo scrive? Ha scritto tanto nella sua vita, dapprima
per divertimento poi per terapia. Eccolo ora guarda il
suo scrittore, lo immagina dentro un appartamento,
davanti alla sua Olivetti, ha gli stessi suoi tic, le
sue stesse somiglianze, le sembianze di uno scrittore,
bloccato e senza vena, eppure ne ha scritte tante di
parole, avrebbe voluto farne un mestiere, venderle ed
arricchirsi, stupire e sbalordire, dire addio e ti amo,
sorprendere e masturbarsi, eh già sì con le parole! Le
stesse che ora vede, sul neon galleggiare, come gatti
saltellare sui tetti di una Roma che non finisce di
stupire.
Le vedi? Sono logore e inconsistenti
che si arrotolano leggere, cenci consumati dal tempo e
dall’usura, eh già le parole, sfruttate ad una ad una,
sfumate per un’eco nella chiave di violino, strascicate
per un senso o solo per un suono. Ha passato notti
sveglio, per un prologo, un finale, a volte anche per
una frase oppure una parola, come adesso nel contesto,
calato nella parte, immaginalo seduto, che preme su quei
tasti, una parola e un’altra ancora, ma la prossima non
viene, sa che sarà indelebile, la linfa della storia, è
lì da qualche parte, sulla punta della lingua, sul
soffitto mimetizzata tra le crepe dei suoi muri, sotto
le sue dita, sulla parete e sotto un quadro, nascosta
tra i suoi libri o sotto quei cuscini, dentro
l’Olivetti, sotto quei tasti duri… Lui vuole lei, e lei
vuole lui, solo lei, la sola, la più adatta, la sposa e
la sirena, l’amante e concubina.
Eccolo nel
tunnel, suda, gronda a fatica, si chiede se quella
parola non venga a lui o allo scrittore. Più scappa e
più la insegue… Nel desiderio diventa miraggio, femmina,
paradiso, tette e cosce e Fata Morgana. Esattamente
quello che avrebbe voluto far dire allo scrittore! Sarà
l’effetto della birra gelata, del vento caldo che non
soffia, oppure è soltanto la frenetica ricerca, oppure
il personaggio visto allo specchio. Ecco, guardalo ora,
guarda quel ghigno soddisfatto, il viso che si
trasforma, lo vedi? Ecco l’ha trovata! La vede, è lei,
tutto ad un tratto l’ha scovata, chissà dove, chissà chi
dei due, lei, unica e disponibile, nuda, bella e grassa
generosa, forse impaurita, stuprata da chissà quanti, e
chissà quante altre volte lui stesso l’abbia usata, ma
ora è la più preziosa, l’incastro della frase, nota per
la sua musica, olio per il suo ingranaggio.
Ecco
guardalo ancora, guarda come si illude, è convinto che
quella parola sia stata la sua svolta, pieno di
entusiasmo si guarda allo specchio, ora deve descrivere
la faccia dello scrittore che ha trovato la sua parola!
Ma dura poco, molto poco, ecco guarda ora la delusione,
guarda la rabbia su quel viso: ha trovato la parola,
l’ha coccolata e poi l’ha scritta, forse l’ha baciata,
ma il senso è già svanito, prova a ripeterla ad alta
voce, anzi la fa ripetere al suo scrittore, ma è vuota e
i suoni morti, come un sibilo di niente, quasi un
fischio fastidioso, ma lui non si blocca, ne cerca altre
e altre ancora, cerca dei sinonimi, affini e contrari,
ma nulla. Vuoto. Ritenta. Niente. Ora capisce,
lentamente sta capendo. O meglio è il suo personaggio
che capisce e si domanda. “Eh già che ci faccio con le
parole?” Forse non sono le parole a comporre un romanzo!
Se invece di scriverle le avesse messe dentro un
secchio, cosa gli sarebbe rimasto ora? Nulla, solo un
secchio miseramente vuoto, perché le parole non
esistono, non fanno alcun volume, non hanno odore, ma sì
questo l’ha già detto. Sono inutili, quanto un treno
senza coincidenza, quanto un vagone fermo su un binario
morto. Lui lo vede, si chiede se anche il suo
personaggio ora stia vedendo la stessa scena. Sta
piovendo, arrugginisce come le parole e tutto intorno
cresce erba… Lo vedi vero? Una coppia clandestina ci va
a fare un po’ d’amore, un ladro affannato ci svuota la
borsa scippata alla stazione, una puttana sulla scala si
rimette in fretta il rossetto, uno zingaro con un
coltellino sfila dai gusci lumachine, qualcun altro ha
una siringa in mano, qualcun altro beve vino, un barbone
che ci dorme e qualcuno si ripara. Ecco vedi? Sono solo
avanzi, scorie e rottami, come le sue parole che ora
traballano, zoppe incespicano, sorde inciampano,
oscillano senza un senso, perché non servono, mai sono
servite!
Ecco ora vede quello che noi vediamo,
uno scrittore dentro una stanza, lo vede miseramente
solo, come lui, e non ha nulla nel suo cuore, dentro
quella stanza, niente affetti, niente cose, amori e
stoviglie, ha scelto di vivere da solo, di notte con la
luna, la sola donna che rispetta, l’unica fedele, perché
non sopporta più nessuno, odia la gente, il mondo e le
donne tutte, anzi una solamente… È solo e come può un
uomo solo ingrassare d’anima le parole? Arricchirle di
vissuto e scriverci una storia? Quale forza potrebbero
avere ora? Ma ormai non c’è più tempo, ormai è entrato
nell’anima del personaggio, eccolo lì chino
sull’Olivetti, quasi riesce a leggere le parole, ma
stanno scolorendo come un rimmel dentro un pianto. Il
foglio è quasi bianco. Forse è sempre stato così, senza
parole. Quasi si sente sollevato perché l’assenza delle
parole non punisce, l’assenza è nulla, come del resto le
sue parole, non sono un pugno in faccia, non hanno la
violenza di uno sputo, come possono descrivere uno
stupro? Sono solo impalpabili, hanno la consistenza
della carta velina, ed anche se provasse a cucirla,
sarebbe impossibile, anche se ci ha provato e per anni
le ha cucite, come una merlettaia china china, come una
sartina, ha fatto fiocchi, nastri e ricami, e qualche
volta ha solo rammendato. Sì, sì, sono buone per i
sogni, per credere ciò che mai avremmo creduto,
imboniscono, plagiano, illudono… Perché le parole
volano, ma non sono uccelli, perché le parole nuotano,
ma non sono pesci, in caso fiocchi belli da vedere, ma
pieni d’acqua e non attaccano, si squagliano e non fanno
neve.
Ecco, ora usciamo, l’occhio s’allontana,
lasciamolo solo, per pudore non andiamo oltre, con la
macchina da presa avremmo voluto sbirciare dentro altre
finestre, entrare in altre case, magari dove uno
scrittore fa l’amore con le parole, fa l’amore con la
sua donna, bella, sincera e fedele, che mai lo
tradirebbe, che mai gli direbbe addio, o magari dove a
quest’ora si scrivono favole notturne, oppure si
raccontano oppure s’adagiano nei sogni, ed invece ci è
capitato lo scrittore che si è infilato in un vicolo
cieco, lo scrittore che scrive di uno scrittore, senza
vena e parole, e lui, che si è calato bene nella parte,
scrive un romanzo su un foglio bianco dal quale
evaporano le parole…
Ecco, sì, usciamo,
lasciamolo nella sua pena, per il romanzo della sua vita
ha scelto un uomo senza amore, e chi è senza amore è
vuoto, è un Sansone senza capelli, una Dalila infedele,
un prato di mandorli nani che non gemmano a marzo, una
donna senza cappello alla stazione Tiburtina, un
tramonto ad Ostia antica senza pioggia e senza sole, un
terno secco a lotto sulla ruota di agosto, una casa in
riva al lago, un divano, Bobby e un camino, una rosa
rossa schiacciata con violenza, sull’asfalto di un
parcheggio anonimo all’aeroporto.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo Kristina Kazarina
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